Non è proprio il momento dell’autarchia, al contrario, c’è bisogno di maggiore integrazione con gli alleati, dalla Francia agli Stati Uniti. Più fiducia, più apertura, più complementarietà, più consapevolezza. Conversazione con Luciano Larivera, gesuita, a lungo segretario per gli Affari Europei presso il Jesuit European Social Centre e presidente del Centro culturale Veritas a Trieste
Padre Luciano Larivera, a lungo segretario per gli Affari Europei del Jesuit European Social Center di Bruxelles, per capire come orientarsi in questo momento delicatissimo e difficilissimo di una guerra che non si deve esitare a definire mondiale, sceglie di partire da quell’Angelus di Francesco interamente dedicato all’Ucraina.
Di quel discorso ritiene che nessuno possa fraintendere il punto decisivo: “Il mio appello si rivolge innanzitutto al Presidente della Federazione Russa, supplicandolo di fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte. D’altra parte, addolorato per l’immane sofferenza della popolazione ucraina a seguito dell’aggressione subita, dirigo un altrettanto fiducioso appello al Presidente dell’Ucraina ad essere aperto a serie proposte di pace. A tutti i protagonisti della vita internazionale e ai responsabili politici delle nazioni chiedo con insistenza di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per porre fine alla guerra in corso, senza lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation, e per promuovere e sostenere iniziative di dialogo”. Tre richieste esplicite e diverse: a Putin una “implorazione”, a Zelensky un fiducioso appello, alla comunità internazionale una richiesta insistente. La classifica sembra chiara: Putin, poi le grandi potenze, poi Zelensky, in ordine di diversificate responsabilità.
A questo punto a suo avviso emerge la priorità: evitare la escalation, quindi lavorare per il cessate il fuoco. Un cessate il fuoco è sinonimo di non escalation certamente, ma non va posto in contesti che padre Larivera ritiene affascinanti ma anche pericolosi: parlare di conferenza internazionale, di egida dell’Onu, può apparire bello, ma quale conferenza di pace potrebbe considerare un’invasione di uno Stato sovrano, quale Onu potrebbe discutere i confini riconosciuti di uno Stato sovrano, quale avvicinamento tra le parti si potrebbe raggiungere in questo modo?
Questa strada rischia di non essere percorribile per tutti, oggi, meglio pensare allora a come convincere a disinvestire dall’odio e quindi investire sulla creatività diplomatica. Nello scenario del diritto, sottolinea, è evidente che l’attacco al ponte che collega la Crimea alla Russia è un atto militare legittimo, è un’infrastruttura sul territorio ucraino che l’occupante usa per rifornire le sue truppe d’occupazione.
Attaccare per uccidere civili è cosa diversa, lui parla del tipo di azione militare. Dunque l’obiettivo che deve emergere è ridurre la tensione, cercare il cessate il fuoco, che vuol dire però non limitarsi a congelare il conflitto, ma passare da un’escalation di odio e di fuoco a un’escalation di fantasia costruttiva, diplomatica, geopolitica, di interessi. Per convergere infatti occorre saper contemperare esigenze e priorità diverse, di ordine geopolitico, militare, economico e ancora. Il rischio di un semplice congelamento potrebbe infatti dividere o allarmare i belligeranti: a chi conviene fermare il conflitto nel gelo invernale, a chi conviene riprenderlo in primavera, quando muoversi è più facile? Sono considerazioni militari legittime che solo un’agenda di altro tipo può contenere, o far passare in secondo piano.
Questa agenda va vista nelle diverse prospettive di un consenso interno, di un sollievo economico, di un guadagno geopolitico, di un rilancio diplomatico, di una concreta speranza politica. I rischi di insuccesso per un cessate il fuoco pensato solo in funzione di un congelamento gli sembrano evidenti, serve la sua parzialità ma inserendola in una creatività dinamica, sembra di capire dal ragionamento intenso e intrecciato di padre Larivera.
Dunque è necessaria fantasia per far convergere gli interessi diplomatici, quelli geopolitici, quelli economici, in un’agenda che si possa costruire nel tempo del cessate il fuoco. Congelare è il solo modo per cominciare ma non può esaurire la prospettiva, che vive in un’agenda non prefabbricata, chiusa, ma da costruirsi in prospettiva. Un’agenda definitiva, dice quasi come pensandoci, potrebbe essere presa dal modello Alto Adige. Questa agenda non tocca i confini nazionali ma dà piena soddisfazione ai diritti delle minoranze. Ma per quanto possa apparire convincente non ritiene si possa calare dall’alto, come un qualcosa di già pronto.
Il modello va costruito insieme pensando alla realtà e alla necessità di evitare che si combatta anche se non si è pienamente d’accordo. Parliamo di terre delicate, cerniere di una importanza vitale e quindi globale. E proprio pensando a una di queste cerniere, Cipro, padre Larivera vede che lì il cessate il fuoco ha prodotto un risultato forse impensato: la zona occupata dai turchi non è riconosciuta da nessuno ma c’è, Cipro però è diventata membro effettivo dell’Unione Europea e questo è riconosciuto da tutti, come nessuno contesta la presenza di basi militari britanniche che garantiscono anche dal punto di vista militare la sicurezza da possibili intemperanze turche . Insomma, conclude, lui non ha un modello, ma la convinzione che tutti dobbiamo capire che soprattutto in queste aree di così tanti significati la soluzione possibile è preferibile a quella perfetta ma impossibile. Questo diviene possibile se il passo avanti, o indietro, lo fanno tutti.
Ascoltarlo fa pensare che mentre parliamo di pace chi forma il nuovo governo deve anche pensare alle nuove sfide per la nostra sicurezza, che in un contesto del genere non possono lasciare indifferenti.
Indubbiamente per padre Larivera le nuove sfide alla nostra sicurezza ci sono, sono gravi e per affrontarle se è giusto rimanere in un contesto di limitazione della proliferazione di nuovi armamenti occorrono uno sforzo aggiuntivo e superare l’illusione che esse vengano dai barchini dei migranti. Lì c’è un prodotto dell’odio che dobbiamo contrastare, l’odio però, non le sue vittime. Quanto alle vere minacce basta vedere cosa succede intorno a noi, sotto ai mari. Le nuove vie di approvvigionamento italiane ci sono e vanno tutelate da possibili aggressioni, da attentati simili a quelli che si sono verificati nei mari de nord in questi giorni. Come i fondali marini e le infrastrutture che ospitano, vanno tutelati i cieli e i satelliti, ma evitando atteggiamenti aggressivi, piuttosto consolidando i rapporti con i nostri alleati e riconoscendo uno spazio per i nuovi soggetti che si affacciano qui intorno, ma rafforzando i nostri legami con gli alleati per potersi tutelare davvero dai crescenti pericoli senza svenarsi.
La nuova difesa, dopo la presa d’atto che la Russia non è più un partner strategico, va considerata una necessità che ci trova ad un punto storico cruciale, delicatissimo: non gli sembra proprio il momento dell’autarchia, al contrario, ci sarebbe bisogno di maggiore integrazione con gli alleati, dalla Francia agli Stati Uniti. Più fiducia, più apertura, più complementarietà, più consapevolezza, insieme a una ragionevole apertura ai nuovi vicini in cerca di spazio, legittimo.