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Bernanke, l’uomo che inventò il Qe e fece scuola (Draghi docet)

Assegnato a Stoccolma il prestigioso premio, che va a Douglas Diamond, Philip Dybvig e all’ex governatore della Fed. Che, all’indomani della grande crisi finanziaria americana di 14 anni fa, promosse uno strumento monetario copiato poi in tutto il mondo

Ben Bernanke non è l’uomo per tutte le stagioni. Ma per quella della grande crisi, americana prima e globale poi, sì. Era alla guida della Federal Reserve quando gli Stati Uniti si accorsero che prestare denaro a chi non poteva restituirlo, era quell’errore che non andrebbe mai commesso. Era il 2007 e i primi mutui subprime, riservati a chi non poteva permettersi i tassi di interesse fissati dal mercato, cominciavano a scricchiolare. Da lì ai dipendenti di Lehman Brothers con gli scatoloni in mano e l’aria dimessa, il passo fu breve.

Forse fu proprio in quel momento che l’allora governatore della Fed, oggi ricercatore in forza al Brookings e vincitore del premio Nobel per l’economia insieme agli economisti Douglas Diamond e Philip Dybvig, cominciò a plasmare nella sua testa il Quantitative easing, il padre di tutti gli stimoli monetari, che nel tempo ha trovato spazio in quasi tutte le banche centrali delle economie avanzate, a cominciare dalla Bank of England alla Bank of Japan, fino ad arrivare alla Bce, che sotto la guida di Mario Draghi incamerò la lezione americana al grido di whatever it takes. E persino in Cina.

Miliardi immessi nell’economia reale americana per sostenerne la tenuta, impedirne il collasso e irrobustire il debito pubblico, a suon di acquisti in massicci stock di titoli di Stato. Era la Federal Reserve che cambiava pelle, diventando contemporaneamente prestatore di ultima istanza e garante delle finanze pubbliche americane. Bernanke, classe 1953, da Augusta (Georgia) e presidente della Fed fra il 2006 e il 2014, nominato da George W. Bush e confermato da Barack Obama all’indomani della cavalcata elettorale del 2008, è a tutt’oggi l’ispiratore della fase del Quantitative Easing. Non poteva essere altrimenti vista la portata della crisi innescata dal crack Lehman.

Qualcosa di mai visto prima, anche e non solo perché il lancio del Qe, proseguito dal successore di Bernanke, Janet Yellen e che ha trovato in Draghi il massimo promotore in Europa, fu unito al mantenimento a zero dei tassi a zero, permettendo all’economia americana di riprendersi e iniziare una rincorsa durata fino alla pandemia, per poi infrangersi definitivamente sullo scoglio della guerra in Ucraina. Da quel momento, il Qe è diventato obosleto, vetusto, forse non più aggiornato ai tempi della grande inflazione. E allora, giù coi tassi, denaro sempre più costoso, stretta dopo stretta.

Ora, il massimo riconoscimento accademico, grazie a degli studi proprio sulle banche. La premessa è che il funzionamento dell’economia richiede che il risparmio delle famiglie venga convogliato verso investimenti o attività produttive. Ma su questo si crea un conflitto: i risparmiatori vogliono accesso istantaneo ai loro fondi, mentre imprese e titolari di mutui non vogliono vedersi costretti a restituire anticipatamente i finanziamenti. Qui entrano in gioco le banche con un ruolo cruciale da intermediario, sul cui studio è stato conferito il premio in memoria di Alfred Nobel, a Bernanke, Diamond e Dybvig.

Gli studi condotti dei tre hanno analizzato proprio come la combinazione di queste due attività, raccolta del risparmio e finanziamento all’economia reale, crei delle vulnerabilità nelle banche, quando serpeggiano voci di possibili imminenti problemi. Si possono scatenare i classici bank run, quando un gran numero di risparmiatori corre a ritirare i propri fondi. Diamond ha dimostrato un’altra peculiarità importante delle banche, che come intermediari valutano l’affidabilità creditizia e assicurano in questo modo che i fondi vengano assegnati in maniera efficiente. Bernanke, per parte sua, ha scandagliato gli effetti della grande depressione del 1930.

Diamond, interpellato subito dopo l’annuncio arrivato da Stoccolma, ha spiegato come oggi il settore bancario è “certamente preparato meglio ad affrontare eventuali crisi di quanto lo fosse nel 2007-2009. Tuttavia le crisi finanziarie diventano peggiori quando la gente inizia a perdere fiducia nella stabilità del sistema e questo può verificarsi quando le cose avvengono in maniera inattesa, si possono innescare paure. Lo abbiamo un po’ visto di recente in Gran Bretagna”. C’è da credergli.

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