Sulle sfide globali gli Stati membri dell’Unione europea, della Nato e le democrazie non devono chiudersi a riccio. Ma guardia alta sulla transizione e le sfide del futuro. Il commento di Marco Mayer
L’intervista di Adolfo Urso, ministro delle Imprese e made in Italy, su La Stampa merita grande attenzione di tutti i partiti sia di maggioranza che di opposizione perché essa affronta uno temi più importanti e difficili: le priorità strategiche della politica economica estera dell’Italia (e dell’Europa) per la prossima legislatura.
L’analisi del ministro parte fotografando un fenomeno negativo su cui negli ultimi tempi il Copasir e l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi hanno acceso i riflettori, ma che il mondo della politica e i media mainstream hanno costantemente ignorato. Rispetto alle speranze suscitate all’inizio del millennio dall’incontro Nato-Russia a Pratica di Mare e dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio è intervenuto un grave processo involutivo che Urso sintetizza nella sua intervista: “nei primi dieci anni le cose sembrarono andare bene. Ci fu poi un deragliamento di Russia e Cina, all’unisono, tra 2012 e 2013”. Che cosa accadde? “Forse i due regimi ebbero paura che davvero, dietro la prosperità, le libertà stessero bussando alla loro porta. E anche nel commercio mondiale si passò dalla fase della cooperazione a quella della competizione sleale e della politica di potenza, con l’energia o con la tecnologia, comunque con l’obiettivo di condizionare le nostre libertà e il nostro benessere”.
Nonostante il “deragliamento” di Russia e Cina, l’Italia e altri Paesi europei, l’Ungheria in primis (ma anche la Germania), hanno continuato a spalancare le porte alle aziende russe e cinesi in due comparti strategici per il futuro: la transizione digitale e l’energia. Il ministero dello Sviluppo economico ha aperto sia la prima fase di sperimentazione sia le gare ordinarie per il 5G a raggruppamenti che comprendevano i colossi tecnologici cinesi Huawei e Zte.
In totale assenza di direttive politiche, Consip e una miriade di stazioni pubbliche appaltanti hanno aperto a tutti: ad aziende come Hikvsion (cinese) nella videosorveglianza e in un numerosi progetti di smart cities, a Kaspersky e ad altre aziende russe nella cybersecurity e/o a WindTre (100% cinese) nella telefonia mobile.
È ormai arcinoto come nell’ultimo decennio siano notevolmente aumentate le importazioni del gas dalla Russia. Gli italiani lo hanno scoperto dopo l’invasione della Russia in Ucraina. La penetrazione russa e cinese nei settori strategici (e trasversali) nel tessuto economico, amministrativo e accademico del nostro Paese è molto ampia e ci vorranno anni per riorientare le politiche pubbliche nella direzione giusta.
Tuttavia, c’è una scadenza ravvicinata su cui è possibile agire subito. Sono già partite le prime gare per l’attuazione del PNRR nella transizione ecologica (ed energetica) e nella transizione digitale (dalla banda larga sino ai progetti di digitalizzazione della Pubblica amministrazione, per la scuola, la sanità, eccetera). Su questo piano si può agire subito come ho suggerito in occasione di due audizioni sul PNRR delle commissioni Esteri e Difesa della Camera.
Innanzitutto occorre assicurare (con il monitoraggio del ministero dell’Economia e delle finanze e della Guardia di Finanza) che corruzione, frodi e conflitti di interesse non inquinino l’implementazione del PNRR. È altresì altrettanto importante che in modo diretto o indiretto (vedi subforniture e supply chain) beneficiari dei finanziamenti europei non possano essere imprese cinesi e/o russe e/o ovviamente loro consociate italiane. Sarebbe un paradosso inaccettabile. Guai a dimenticare cosa ha scritto Alessandro Manzoni nel capitolo XXXII dei “Promessi Sposi”: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Non è facile far prevalere il buon senso in un Paese in cui quasi nessuno sa (o se sa non scrive) che Gazprom partecipa tranquillamente al capitale di aziende ex municipalizzate, che Mediaset e Huawei collaborano da anni, che Pirelli o Wind Tre sono controllate da holding cinesi, eccetera.
Per quanto tardivo il divorzio dell’Uefa da Gazprom indica la strada del buon senso. Sarebbe auspicabile che almeno su questo fronte si determinasse la più ampia convergenza parlamentare. L’europeismo e l’atlantismo non possono prescindere da una politica economica estera che capace di tutelare gli interessi strategici del mondo libero. Questo non significa riproporre l’antica e ormai superata divisione “the West and the Rest”.
Sulle sfide globali quali la sicurezza alimentare, il cambiamento climatico, le pandemie, la stabilità finanziaria, il disarmo nucleare gli Stati membri dell’Unione europea, della Nato e le democrazie non devono chiudersi a riccio. Al contrario aprire il dialogo con tutti a partire dal prossimo G20 in Indonesia, il debutto di Giorgia Meloni sulla scena internazionale.