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Pensioni, qualche consiglio su cosa (non) fare. Scrive Cazzola

È difficile che il nuovo governo passi la mano di fronte a un piatto che includa il gettone delle pensioni. Ma l’onorare gli impegni assunti in campagna elettorale, non sarà un’impresa facile. L’analisi di Giuliano Cazzola

Per quanti – come il sottoscritto – ritenessero non prioritario e inutile attuare l’ennesima (contro)riforma delle pensioni, il fatto che di previdenza si parli poco potrebbe essere considerato un segnale positivo. Peraltro in tutta la telenovela del toto-ministri non è mai stata dedicata particolare attenzione per la personalità chiamata ad appoggiare i suoi “magnanimi lombi” sulla poltrona del Palazzo di via Veneto, che il ministro Maurizio Sacconi (l’ultimo titolare di quel dicastero che si sia dimostrato all’altezza) volle dedicare a Marco Biagi.

Il solo nome apparso nelle cronache è quello di Marina Elvira Calderone, attuale presidente del Consiglio nazionale dei Consulenti del Lavoro, ma con una lunga storia alle spalle nelle Casse della previdenza delle libere professioni. Calderone avrebbe il profilo di una scelta “tecnica”, con una caratteristica abbastanza inedita, simile a quella che portò al medesimo incarico Giuliano Poletti che proveniva dal mondo della cooperazione. Calderone verrebbe dal lavoro autonomo; e presumibilmente non trasformerebbe – come i due predecessori – il ministero in una filiale della Cgil. Vi è un altro aspetto da considerare. Il nuovo governo, per recuperare risorse, sembrerebbe intenzionato a dare priorità alla revisione del Reddito di cittadinanza. Ma anche per un governo di destra è difficile sottrarsi alla retorica delle pensioni in un Paese in cui, se chiedi ai bambini cosa vogliono fare da grandi, ti rispondono “il pensionato”.

Le promesse contenute nei programmi elettorali sono molto impegnative. Poi incombe sempre la minaccia di ricadere nell’ambito di quella riforma Fornero che, nonostante tutti gli sforzi, nessuno è riuscito a “superare”, tanto meno ad “abrogare”. In realtà si tratta di esagerazioni irresponsabili che tuttavia hanno fatto presa sull’opinione pubblica. Ormai è quasi tempo perso spiegare che “ nessuno si farà male”. Il 1° gennaio 2023, a legislazione vigente, si potrà andare in pensione a 67 anni di età e almeno 20 anni di contribuzione oppure (fino a tutto il 2026) con una anzianità di 42 anni e 10 mesi se uomini e un anno in meno se donne, a prescindere dall’età anagrafica. Anche la soluzione/ponte di quota 102 (64 anni + 38 di contributi) verrà a scadenza con la fine dell’anno in corso. Nessun dramma, visto che sono tante le uscite di sicurezza accumulate negli anni per “aggiustare” il presunto rigore della riforma Fornero.

È difficile che il nuovo governo passi la mano di fronte a un piatto che includa il gettone delle pensioni. Ma l’onorare gli impegni assunti in campagna elettorale, non sarà un’impresa facile. Ammesso e non concesso che il nuovo governo riesca ad arrivare a capo, nei tempi previsti, del varo della legge di bilancio, si parla di una manovra da 40 miliardi, di cui almeno 35 miliardi sono vincolati al rifinanziamento delle misure di sostegno e di aiuti varati dal governo Draghi. Poi si renderà necessario un ulteriore intervento sul caro energia per le famiglie e le imprese. Un’ulteriore variabile imprevista riguarda l’incidenza dell’inflazione anche sulla spesa pubblica, in particolare sulle prestazioni monetarie. Il primo problema riguarda la rivalutazione automatica delle pensioni nei termini già previsti dalle leggi vigenti. All’effetto determinato dall’inflazione in forte crescita si è aggiunto l’anticipo, da ottobre, di un 2% della rivalutazione previsto nell’anno prossimo per i redditi fino a 35mila euro l’anno.

È noto che i pensionati sono l’unica categoria che conserva una sorta di scala mobile che consentirà di recuperare il potere d’acquisto delle loro rendite svalutato pesantemente in questi ultimi mesi. Così, a decorrere dal prossimo 1° gennaio le pensioni recupereranno – sulla base degli scaglionamenti previsti – l’inflazione del 2022 che ha registrato un aumento dello 0,9% su base mensile e una crescita del 6,9% su base annua. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, ipotizzando un’inflazione superiore di due punti rispetto al 5,8% previsto nel Def per il 2022, la rivalutazione delle pensioni all’inflazione costerà allo Stato circa 32 miliardi lordi nei prossimi tre anni (5,7 miliardi nel 2023, 11,2 nel 2024, 15,2 nel 2025) che andranno a beneficio degli oltre 16 milioni di pensionati.

Anche la Nadef ha rifatto i conti. La crescita annua prevista nel 2022 per la spesa per pensioni e le altre prestazioni sociali viene rivista al rialzo rispetto al Def, rispettivamente al + 3,9 % e al +0,6 % esclusivamente per gli interventi normativi adottati successivamente. Negli anni successivi al 2022, e in particolare nel biennio 2023-2024, la spesa pensionistica – è scritto nella Nadef – risentirà maggiormente dell’indicizzazione ai prezzi delle prestazioni basata sul tasso di inflazione dell’anno precedente, rivista al rialzo in misura significativa rispetto al Def. La spesa complessiva per prestazioni sociali in denaro è attesa quindi crescere ad un ritmo del 4,4 per cento nel 2023 e 4,3 per cento nel 2024, per poi tornare ad aumentare ad un tasso del 2,8 per cento nel 2025.

Per farla breve l’avvertimento, tramite la Nadef, del governo uscente a quello che entrerà in carica, consiste in una domanda che potremmo definire retorica: è possibile aumentare la spesa pensionistica con nuovi interventi onerosi quando è già complicato ottemperare agli impegni già previsti dalla legge? In questi giorni è circolata l’ipotesi di estendere Opzione donna anche agli uomini. Il regime sperimentale dell’opzione donna è stato introdotto dalla riforma Maroni del 2004 e prevedeva, per le lavoratrici, la possibilità di anticipare l’uscita dal mondo del lavoro a patto di accettare il ricalcolo del vitalizio interamente con il sistema di calcolo contributivo (anche per i periodi in regime retributivo), generalmente meno favorevole al lavoratore rispetto al sistema di calcolo retributivo.

L’opzione è stata più volte prorogata e nella riformulazione del DL 4/2019 ha consentito alle donne di pensionarsi maturando entro il 31 dicembre 2019 almeno 58 anni d’età (59 anni per le lavoratrici autonome) e 35 anni di contributi. La decorrenza (la c.d. finestra) del trattamento pensionistico avviene trascorsi 12 mesi (18 per le lavoratrici autonome) dalla maturazione del requisito. Opzione donna fu pensata per attutire l’impatto dell’aumento dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici in vista della parificazione con quella degli uomini. Ma i requisiti previsti hanno determinato un uso limitato dell’opzione, non solo per lo spauracchio del ricalcolo, ma per la oggettiva difficoltà delle lavoratrici di accumulare un’anzianità lavorativa di 35 anni.

Il trend cambierebbe radicalmente si segno nel caso che l’opzione si estendesse anche agli uomini, perché le coorti che vanno in pensione adesso e nei prossimi anni possono far valere storie lavorative lunghe e continuative ad un’età simile a quella richiesta. Si aprirebbe dunque un’ulteriore via di uscita dal mercato del lavoro per i c.d. anziani/giovani, grandi utilizzatori di tutte le forme di pensionamento anticipato. Peraltro anche la minaccia del ricalcolo e del conseguente taglio dell’assegno è una tigre di carta, perché nelle storie lavorative dei pensionati la quota del calcolo contributivo (dall’1 gennaio 2012 applicata a tutti pro rata) è destinata a crescere e a ridimensionare di conseguenza il ricalcolo della quota retributiva. Va segnalata in proposito un’ulteriore occasione che Maurizio Landini ha perduto per pensare bene a ciò che stava dicendo. Il segretario della Cgil ha dichiarato, infatti, che il taglio della pensione derivante dall’esercizio dell’opzione (estesa anche agli uomini) sarebbe inaccettabile. Peccato che non si sia accorto che questa regola è in vigore per le lavoratrici da circa 20 anni. Ma per capire che cosa il governo Meloni potrebbe fare in tema di pensioni è bene leggere, in proposito, il programma elettorale di FdI. Meloni non si è fatta mancare proprio nulla.

“Flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso facilitato alla pensione, favorendo al contempo il ricambio generazionale. Stop all’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Rinnovo della misura ‘Opzione donna’. Un sistema pensionistico che garantisca anche le giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo. Ricalcolo, oltre un’elevata soglia, delle ‘pensioni d’oro’ che non corrispondono a contributi effettivamente versati. Adeguamento delle pensioni minime e sociali, per restituire dignità alle persone che vivono difficoltà quotidiane e rischiano di finire ai margini della società”.

C’è poco da stare allegri. L’abolizione dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’attesa di vita (peraltro introdotto dall’ultimo governo Berlusconi) sarebbe un colpo mortale alla sostenibilità del sistema. Poi viene riaperta la caccia alle c.d. pensioni d’oro. Ed è probabile che qualche misura di questo tenore sia già introdotta nella prossima legge di bilancio per consentire qualche ritocco alle pensioni minime e sociali.



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