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Il Pnrr e la cronica incapacità della nostra Pa a spendere

Mentre si certifica l’incapacità a spendere – che ha accomunato il governo Draghi a tanti altri che lo hanno preceduto (non basta fare lo scaricabarile sulle amministrazioni locali, bisogna invertire la rotta) – si documenta ampiamente quella a “spandere”. Cioè a sprecare… Il commento di Antonio Mastrapasqua

La richiesta di modifica del Pnrr non è più un argomento da programma elettorale. Non solo perché le elezioni sono state celebrate, ma soprattutto perché è ormai evidente che il Piano nazionale di ripresa e resilienza così com’è stato confezionato nell’aprile 2021 non potrà essere applicato. Innanzitutto, perché sono radicalmente mutate le condizioni d’ingaggio: il costo delle materie prime in generale e l’inflazione in particolare hanno reso impossibile la partecipazione a gare con appalti quotati a costi ormai improponibili. Ma in questi mesi è riemersa la cronica incapacità delle nostre amministrazioni pubbliche a spendere.

Il programma di spesa approvato con l’Europa prevedeva la realizzazione di opere per un valore di 13,8 miliardi di euro nel 2020-21, e per altri 27,6 miliardi per il 2022. Per un totale di 41,4 di euro il 2% di Pil.

Scorrendo la Nota di aggiornamento al Def (Nadef) vediamo che sono stati corretti i dati originari: dal 2020 al 2022 ci dobbiamo aspettare che dei 41,4 miliardi solo 20,5 miliardi, la metà, saranno andati spesi. Il tutto è avvenuto in un sottofondo di messe cantate per il Governo dei Migliori, che invece non è riuscito a invertire una rotta, ahimé consolidata, che segna il nostro Paese come sostanzialmente incapace di spendere le risorse che sono messe a disposizione.

Anche nei giorni scorsi abbiamo letto dichiarazioni reboanti del ministro Giovannini che annunciava 55 nuove gare entro fine anno. I soldi si impegnano, ma non si spendono mai. I cantieri non partono. In questi giorni Gustavo Piga sul Sole-24 Ore ha ricordato che insieme a Gaetano Scognamiglio e Francesco Bono aveva già avvertito qualche mese fa di questo trend preoccupante: “La situazione richiede un’attenzione mirata per allinearci alle previsioni di spesa e suggerisce la necessità che, d’ora in avanti, il monitoraggio sia effettuato non solo sul conseguimento dei traguardi e degli obiettivi – che rappresentano spesso lo start del processo di attuazione delle misure e non un punto di arrivo – ma anche sull’andamento della spesa”.

Lo stesso Gustavo Piga, con il coraggio di chi riconosce che il re è nudo, suggerisce al governo prossimo futuro di “pretendere che il Pnrr sia modificato”, almeno sotto due dimensioni: “il rientro di deficit-Pil che dobbiamo mettere in atto per l’anno 2023 su cui incombe una recessione non deve essere quello previsto ad aprile di quest’anno, quando per il 2023 ci si attendeva una crescita del 2,4%”, e poi va rinegoziata con Bruxelles – non saremmo né i primi né gli unici, avendo fatto da apripista il Portogallo – “la scadenza del Pnrr di almeno un anno”, e andrebbe richiesto uno storno di una decina miliardi di euro per la creazione di una nuova governance delle nostre stazioni appaltanti.

Una parte non trascurabile di quello che ormai c’è chi definisce “fallimento” riguarda la scarsa capacità amministrativa delle nostre stazioni appaltanti. Una carenza di competenza e di pensiero strategico del personale amministrativo. Anche le nuove assunzioni annunciate si sono spesso arenate in procedure concorsuali obsolete e farraginose, incapaci di selezionare un capitale umano di qualità e di competenza.

Facile accusare il governo, anche quando piove. Ma incredibile assolverlo di fronte a una performance sbagliata.

Mentre si certifica l’incapacità a spendere – che ha accomunato il governo Draghi a tanti altri che lo hanno preceduto (non basta fare lo scaricabarile sulle Amministrazioni locali, bisogna invertire la rotta) – si documenta ampiamente quella a “spandere”. Cioè a sprecare. Non si spende, ma si sperpera. Anche in questo caso il governo non è più colpevole di altri che lo hanno preceduto, ma nemmeno si può annoverare come quello che ha interrotto una tendenza.

La spending review non è solo scomparsa dal vocabolario dell’esecutivo, ma i numeri certificano che sarebbe richiesta una nuova e caparbia attenzione. Certo, gli anni del Covid e la crisi internazionale ed energetica in corso hanno segnato il debito pubblico (in agosto a 2766 miliardi, +11,2% rispetto al mese precedente), ma la stessa corsa alle risorse del Pnrr sono in gran parte debito. Debito nuovo. Debito caro, con i nuovi tassi di interesse. Debito buono? Per rispondere alla metafora di Mario Draghi tra debito buono e debito cattivo dovremmo aspettare il 2026, quando si chiuderà il capitolo del Pnrr? Speriamo di arrivarci.

 


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