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Rambo compie 40 anni, ma è sempre attuale. Ecco perché secondo Ciccotti

Nell’ottobre del 1982 usciva in Usa “First blood” di Ted Kotcheff. Due mesi dopo veniva distribuito nelle sale italiane con il titolo di “Rambo”, con protagonista un superbo Sylvester Stallone. Nel linguaggio di tutti i giorni prese piede l’espressione “non fare Rambo!”, ossia “non fare il pazzo! non andare contro tutti!”. Ma il personaggio, un giovane pacifico, che subiva violenze dal potere, si rifugiava semplicemente nella legittima difesa. Oggi, qualcuno paragona, giustamente, Zelensky a Rambo

Un reduce del Vietnam cammina a piedi per una cittadina della vasta, anonima, spesso incolore, provincia americana. Siamo a Hope nello Stato di Washington. John Rambo sta andando a trovare un commilitone e amico, con cui ha condiviso il duro fronte nella giungla del Vietnam. Una donna di colore, sta appendendo i panni ad un filo, in un prato, vicino a una modesta casa. È una giornata chiara e ventosa. Forse il bucato si asciugherà. Non così le lacrime trattenute della donna. “Cerco Delmare Berry un mio ex compagno”. La donna continua ad appendere il bucato sul filo. Silenzio. Il reduce mostra alla donna una piccola foto che trae da una tasca, tra i suoi pezzetti di carta: le descrive la foto che ritrae un gruppo di ragazzi soldati, con Delmare in secondo piano, “altrimenti riempiva l’obiettivo”. Aggiunge: “Vorrei salutarlo”. /”Delmare è andato via (“Delmare’s gone”) /”Quando torna?” (What time will he be back?”/“È morto, l’estate scorsa”/. Il volto di John si irrigidisce. Apprende, “a causa dell’esposizione a sostanze contaminanti”. Dopo una spessa pausa di silenzio, dona la foto alla mamma, quel ritratto di gruppo in una giungla che noi spettatori non vediamo, dobbiamo figurarcelo. Così deve essere: un passato da non ricordare.

Lo sceriffo violento

Rambo (era il colosso trentaseienne Sylver Stallone), se ne torna sconsolato e triste verso la cittadina di Hope (“Speranza”), per cercare una tavola calda e mangiare qualcosa. Una auto della polizia locale lo affianca: il guidatore, lo sceriffo Will Teasle, si offre di dargli un passaggio. In effetti lo sceriffo, si rivela subito strafottente e superiore. Non gli piace quel capellone che indossa una giacca da reduce del Vietnam, di poche parole, che gira, a suo parere vagabondando, per “la mia città”. Lo accompagna fuori dalla cittadina impedendogli di mangiare: insomma lo caccia. Rambo scende. Appena l’auto fa inversione e torna indietro, anche Rambo torna verso la cittadina e riattraversa il ponte.

Questo è l’indimenticabile incipit di Rambo (1982) che usciva in Usa il 14 ottobre e a dicembre arrivava nelle sale italiane. Il giovane John, arrestato dal violento e razzista sceriffo Teasle (Brian Dennehy: uno dei pochi autentici e indimenticabili ruoli da poliziotto odioso creati dal cinema hollywoodiano), picchiato, è costretto a difendersi per fuggire dall’ingiusto arresto. Raggiunto il bosco, sul limitare della cittadina, si rifugia lì, tra la folta e intricata vegetazione, rocce scoscese, per difendersi dagli attacchi della polizia armata persino di un elicottero.

Rambo è un partigiano

Rambo si nasconde nella zona boschiva, come un animale circondato dai cacciatori, si organizza come un partigiano. Grazie alla sua esperienza di guerra nella giungla asiatica, dà avvio alla sua resistenza. Riesce a salvarsi dai ripetuti attacchi dei poliziotti, dai cani lanciatigli all’inseguimento, delle vigliacche raffiche di fucili automatici. Diversi poliziotti perderanno la vita poiché il bosco li inghiotte. Rambo sempre più accerchiato si rifugia in una vecchia miniera. Sarà il tunnel, scoperto casualmente, che gli consentirà di uscire dalla foresta e continuare la fuga via strada dopo aver rubato un camion alla guardia nazionale.

Rambo è il Novecento

Rambo è tratto dal romanzo di David Morell dal titolo First Blood, di dieci anni prima. È la storia di un giovane reduce senza lavoro, di un cittadino solo, onesto, schiacciato da una società ingiusta, irrazionale, alogica (i ruoli che Stallone preferisce, sin da Rocky, 1976), zeppa di luoghi comuni e gestita da soggetti istituzionali violenti, invisibili o presenti. Se ci pensiamo, l’uomo schiacciato dal sistema, è il tema principe di alcuni grandi autori del Novecento, quali Franz Kafka, Luigi Pirandello, Michail Bulgakov, Albert Camus, oggi presente in diverse storie della nuova letteratura americana, da Don De Lillo, passando per Raymond Carver, sino a Paul Auster.

Uno stile caleidoscopico

Il film apre su un sereno paesaggio di montagna, con dei boschi e delle case di legno in riva a un lago. Blu del cielo riflesso nel blu del lago. Una donna nera sta appendendo il bucato ad un filo, all’aperto. Sembra un quadro di Giovanni Lega riletto da Edward Hopper. Questo omaggio alla natura tramite i colori autunnali della vegetazione e le inquadrature in campo lungo, rimandano a The trouble with Harry (1955) di Alfred Hitchcock. La musica incipitaria, ariosa, di Jerry Goldsmith (chitarra, tromba e un tappeto di archi) di sapore morriconiano, fa pensare addirittura a una storia romantica. Poco dopo la notizia del commilitone morto e la ripresa del camminare a piedi del giovane reduce per la città deserta e assente, i colori cambiano. Il grigio prende il sopravvento, Kotcheff vira verso atmosfere scorsesiane. Infine, quando siamo nell’inferno della fitta e scura vegetazione non possiamo non pensare al Coppola di Apocalipse Now (1979).

Stallone pacifista

La sceneggiatura cui lavorarono Michel Kozoll e William Sackheim sfrondò molte delle azioni violente ad opera di John Rambo cui l’intreccio narrativo dell’ipotesto di Morrel non aveva rinunziato. Nel film il giovane reduce causa indirettamente solo la morte del vice sceriffo che dall’elicottero gli sparava contro colpi a raffica. Si racconta come lo stesso Stallone si presentasse sovente dagli sceneggiatori chiedendo che il suo personaggio non fosse violento. Anche il finale, che nel romanzo vede la morte del protagonista, nel film opta per l’arresto: Rambo, asserragliatosi in una casa circondata da imponenti forze militari, si arrende grazie al convincimento del suo ex colonnello dei Berretti Verdi, che lo aveva diretto per anni in Vietnam. Subito dopo il successo del film nel linguaggio comune ebbe fortuna il costrutto “non fare Rambo” che significava “non fare il pazzo”, “non andare contro tutti senza ragione”. Ma il messaggio originario veicolato dal film è altro.

Zelensky e Rambo

Quarant’anni dopo, realtà e fiction si sovrappongono. Volodymyr Zelensky nel suo segreto minuscolo quartier generale di Kiev si difende, da mesi, quasi accerchiato, dalle bombe e dai missili. Comanda un piccolo Stato contro una delle più forti potenze del pianeta. Ce la farà il soldato Zelensky a “vincere” senza arrendersi? Verrà ucciso? O magari avremo la agognata pace con un ragionevole armistizio? Grazie alla mediazione dei Berretti Verdi (Joe Biden)? Sta di fatto che ora Zelensky è costretto ad essere Rambo. E noi non possiamo non simpatizzare per lui.

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