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Il Padre Pio di Abel Ferrara a San Giovanni Rotondo

In anteprima nazionale a San Giovanni Rotondo, alla presenza dei Frati del Santuario, è stato presentato “Padre Pio” di Abel Ferrara. Un film denso tra storie personali e Storia, tra fede e socialismo. La vita di inizio secolo sul Gargano raccontata in uno stile che ricorda Andrej Tarkovskij. La recensione di Eusebio Ciccotti

La camera panoramica dolcemente in campo lungo su un cielo bianco, lattiginoso, invernale. Il disco solare, dietro il velo, a momenti pare riesca a trovare un varco, spinge la sua luce che appare subito frenata. Come la fede di quel giovane cappuccino, dalla folta barba (è Shia LaBeauf), a dorso di un mulo, del quale sentiamo, in off, una sua lettera a un confratello. Conosciamo i suoi tormenti dello spirito, le incertezze, i silenzi di Dio, la paura di non essere degno “di Te che mi hai scelto…”.

Siamo attratti dal percorso accidentato, verso la sommità del monte, tra viottoli di terra battuta o con qualche ciottolo, dislivelli scoscesi, simbolo della salita sul Calvario quotidiano di ogni uomo, laico o religioso. Ecco, un romito convento sul Gargano. L’uomo si ferma nel lungo e stretto cortile che porta al piccolo convento, scende e va verso un confratello che gli viene incontro, presentandosi così: “Sono Pio”. La camera, rispettosa, si è fermata in campo medio, con tanto di fuga prospettiva su quello stretto passaggio tra due pareti di sassi, il muro del convento e quello di cinta, che conduce all’entrata, nascosta allo spettatore. Un accesso lungo e stretto, infatti “si entra in cielo per la porta stretta. Perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione…” (Matteo 7, 13-14).

È il catturante incipit di Padre Pio (2022) di Abel Ferrara, scritto insieme a Maurizio Barucci, prodotto da Maurizio Antonini e presentato in anteprima nazionale, il 26 novembre a San Giovanni Rotondo, alla presenza delle autorità civili e militari dei centri del Gargano, della Film Apulia Commission, e dei frati cappuccini, che hanno collaborato al progetto, rappresentati dal rettore del santuario, fra Francesco Dileo.

Il racconto del film si snoda in montaggio alternato tra la storia privata del frate di Pietrelcina, ossia l’arrivo nel piccolo convento di San Giovanni Rotondo e il suo particolare percorso spirituale, e alcuni fatti politici che culmineranno nel massacro di civili socialisti del piccolo centro, nell’anno 1920.

Padre Pio, scritto con finezza da Barucci e Ferrara, pur concedendosi qualche piccola libertà storica necessaria ai fini finzionali (le stimmate evocate visivamente con estrema cautela, e per pochi secondi, si attestano in realtà prima del 1920), ricostruisce ambienti e situazioni con obiettività storica priva di enfasi. Dal ritorno dei reduci dalla Grande Guerra, ai conflitti tra socialisti locali e padroni terrieri sfruttatori dei contadini e pronti alla repressione appoggiati dalle forze giudiziarie e militari, alle prime elezioni politiche aperte a tutti gli uomini.

Un intenso Shia LaBeauf, che grazie allo studio della vita del santo di Pietrelcina ha trovato la conversione sul set, è stato diretto in sottrazione da Abel Ferrara: gesti e sguardi scevri da facili e inutili pleonasmi. La regia di Ferrara si fa estremamente poetica negli esterni, fotografando l’aspra natura del Gargano con delicati tocchi tarkovskiani.

Nel modo di inquadrare Ferrara opta sapientemente per un doppio stile: “classico” nei momenti in cui si “parla” di ricerca della fede, quando studia, per esempio, il volto di Padre Pio di profilo o di tre quarti; estremamente mobile, durante i fatti politici, o nel ritrarre il patimento dei contadini. Esemplari due scene risolte in un piano-sequenza che definirei “sollievo della sofferenza”. Il bracciante Salvatore, “scampato alla guerra”, stramazza al suolo, trainando una cassa colma di pietre con corde che gli segano le spalle (i contadini sono costretti dal padrone a costruire dei muri “a secco” per delimitare i confini dei poderi).

La camera di Ferrara, quasi impietosa, segue l’emaciato Salvatore in questa tortura, sottolineata dal voluto fuori-quadro, e l’associazione alla Passione di Cristo nella salita al monte Calvario è legittima. Un altro piano-sequenza, meno sperimentale, è quello chiamato a seguire Padre Pio che, dopo la funzione, esce dalla chiesetta, nel vicolo del paese. Il frate, appena fuori, viene verso di noi e si siede in basso, su un muretto, accanto alla porta, dove staziona uno storpio.

Uno accanto all’altro. Sofferenza e preghiera. In silenzio ascolta il respiro affannato e sofferente dell’uomo. Dopo interminabili secondi gli dice “Ascolta”. Altra pausa, altrettanto lunga. Poi, sottovoce, “Abbi il coraggio di fare quello che senti”. Il frate si alza ed esce dall’inquadratura. La camera rimane sullo storpio, va sui suoi piedi fasciati e deformi. Pian piano gli arti sono percorsi da un impercettibile fremito, cominciano a muoversi le falangi; l’uomo si alza, barcollando, due gambe come due segmenti spezzati che tentano di mettersi a piombo, compie i primi passi della sua nuova vita. La camera lo accompagna per alcuni metri e poi arriva lo stacco. Oramai cammina. Taglio sul volto di una vecchietta, incorniciato come tante donne, dentro un fazzolettone nero. Fissa l’uomo che di spalle si allontana basculante, come un bambino di nove mesi. Lo fissa senza espressione, né gioiosa né di choc: semplicemente sorpresa da quello che vede. Qui Ferrara fa della poesia.

La fotografia “a candela” (ma, supponiamo, anche con il ricorso studiato a fonti di luce al led) di Alessandro Abate disegna caravaggesche zone di luce e di ombra negli interni che hanno un rimando semantico al bene (Padre Pio con toni caldi) e al male (il demonio che lo accusa, con fredda luce grigia o con lieve dominante verdognola). Pregevole la cura dei costumi di Antonella Cannarozzi (anche se non si potevano dotare tutte le comparse di zoccoli o scarpacce, e quindi gli stivaletti sono giustificati). I cultori delle colonne sonore apprezzeranno la struttura stratificata escogitata dal compositore Joe Delia che, per esempio, trasforma alcune note classiche del pianoforte in improvvise riuscitissime impennate avanguardistiche.

“Non ero interessato – ha chiosato Abel Ferrara durante l’incontro con il pubblico di San Giovanni Rotondo – a realizzare un biopic sulla vita di un santo, ma a tracciare il tortuoso percorso verso la fede di un semplice frate. Allo stesso tempo volevo raccontare la piccola ma tragica vicenda del massacro dei civili socialisti del 1920, avvenuto appunto in questo minuscolo paese del sud Italia. Ritengo quel massacro l’inizio della seconda guerra mondiale nella quale moriranno milioni di persone, cui hanno partecipato anche gli Usa con le due bombe sganciate sul Giappone. La stessa violenza che oggi la Russia sta praticando sull’Ucraina”.

Un film che non è un “documentario” come umilmente lo definisce Abel Ferrara, e che rischia di avere il successo di The Passion di Mel Gibson, citato da Ferrara “per il suo coraggio di parlare di Gesù quando ad Hollywood nessuno gli credeva”.

 



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