“In realtà, in questo Accordo sono in gioco cose che toccano la natura intima della Chiesa e la sua missione di salvezza. Infatti, si cerca di garantire che i vescovi cattolici cinesi possano esercitare il loro compito episcopale in piena comunione con il Papa”. Riccardo Cristiano legge per Formiche.net il saggio di padre Antonio Spadaro in uscita nel prossimo numero della rivista dei gesuiti
In occasione del quarto centenario dell’arrivo del gesuita Matteo Ricci a Pechino nel 1601, fu organizzato a Roma un grande convegno di studi, per celebrare e attualizzare l’opera di grande missionario che dopo essere stato mal visto in Vaticano è diventato un simbolo dell’inculturazione della fede cristiana nelle varie realtà del mondo.
In quell’occasione papa Giovanni Paolo II disse: “I neofiti cinesi, abbracciando il Cristianesimo, non avrebbero dovuto in alcun modo rinunciare alla lealtà nei confronti del loro paese: in secondo luogo, la rivelazione cristiana sul mistero di Dio non distruggeva assolutamente, ma al contrario valorizzava e completava, ciò che di buono e di bello, di giusto e di santo, aveva risentito e trasmesso l’antica tradizione cinese […] L’azione dei membri della Chiesa in Cina non è stata sempre esente da errori”.
Impegnato su un fronte di missionarietà analogamente difficile, padre Paolo Dall’Oglio, dalla sua frontiera islamica, ha notato che il problema della diffusione del cristianesimo e dell’islam in Cina non è dipeso dalla “diversità” ma dall’approccio imperiale, conquistatore, di entrambi. E questo a suo modo di vedere, in quei tempi di conquista, ha paradossalmente contribuito a preservare l’enorme patrimonio spirituale cinese.
Oggi la questione del rapporto tra Chiesa cattolica e Cina non è più quella dei tempi di Matteo Ricci, di quando si chiedeva ai gesuiti cinesi di riconoscere che Confucio era all’inferno, come loro fortunatamente si rifiutarono di fare, ma rimane quella di capirsi. Si può essere buoni cattolici e buoni cinesi? Se non si risolve questo problema non si risolverà il problema della presenza del cristianesimo e del cattolicesimo in particolare in Cina.
L’argomento è profondamente divisivo tra chi ne coglie il significato in questi termini e chi invece ritiene che capendosi con il regime cinese il Vaticano si piegherebbe a una terribile dittatura. Il potere in Cina è sempre stato “imperiale”, e ha sempre preteso di avere un qualcosa di “assoluto”, visto e considerato che l’imperatore è stato per secoli il “figlio del cielo”. Ora, che il segretario del partito sia il nuovo imperatore appare confermato oltre che dalla storia anche dalla cronaca dell’ultimo congresso del Pcc. La strada di ogni possibile pluralismo è certamente impervia, ma prioritario è capire quale strada e quali obiettivi si intendano perseguire con l’accordo provvisorio tra Santa Sede e Cina, non tra Vaticano e Cina, cioè non politico, ma relativo ai criteri di nomina dei vescovi.
La storia europea è piena di simili ricerche di intese. Basti ricordare il concordato napoleonico, quindi abbastanza recente, in cui la pretesa di scristianizzare la Francia veniva abbandonata, ma buona fetta del potere di nomina dei vescovi restava a Napoleone, ad eccezione della parte canonica. Che la Chiesa cattolica debba capirsi su questo con Pechino non appare un’assurdità, vista la diversità delle relazioni tra Chiesa cattolica e Francia e tra Chiesa cattolica e Cina. Se quello che a noi oggi appare assodato, e cioè che il papa nomina vescovi, non era assodato per Napoleone, può essere ancora oggetto di ricerca di comprensione con i cinesi? La questione però a molti appare molto più grave, anche perché recentemente è stato arrestato, e poi trasferito agli arresti domiciliari, il cardinale Zen: importantissima voce del dissenso cattolico in Cina.
I cattolici però ricordano che il cardinale ungherese József Mindszenty ha trascorso cinque anni in galera nella seconda metà del Novecento e quando Giovanni Paolo II fu eletto papa invocò il ritorno di tutti gli ambasciatori dell’est europeo in Vaticano. Dunque cosa vuol conseguire la Chiesa rinnovando questo accordo provvisorio? Di questo si occupa il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, nel nuovo numero della sua rivista in uscita sabato prossimo.
“In realtà, in questo Accordo sono in gioco cose che toccano la natura intima della Chiesa e la sua missione di salvezza. Infatti, si cerca di garantire che i vescovi cattolici cinesi possano esercitare il loro compito episcopale in piena comunione con il Papa. La ragione di tutto è custodire la valida successione apostolica e la natura sacramentale della Chiesa cattolica in Cina”.
Il punto diviene più chiaro subito dopo, quando l’autore ricorda che la Chiesa cattolica in passato è stata divisa tra Chiesa patriottica, fedele a Pechino, e Chiesa clandestina, fedele a Roma. Cosa è cambiato? “È fondamentale aver garantito la validità dei sacramenti celebrati e la certezza, per milioni di fedeli cinesi, di poter vivere la loro fede nella piena comunione cattolica, senza per questo venire sospettati di non essere cittadini leali verso il proprio Paese. Il cristianesimo, lungo la storia, ha sempre vissuto i processi di inculturazione anche come adattamento ai contesti culturali e politici. La scommessa anche in Cina può essere quella di attestare che l’appartenenza alla Chiesa non rappresenta un ostacolo a essere un buon cittadino cinese”.
Dunque torniamo al punto indicato da Giovanni Paolo II nel passo citato all’inizio di questo articolo. “La divisione all’interno della comunità, di fatto era una frattura all’interno della Chiesa. Chiaramente uno dei desideri della Santa Sede è sempre stato quello di favorire la riconciliazione, e di veder sanate lacerazioni e contrapposizioni aperte in seno alla Chiesa dalle tribolazioni attraversate. C’è tuttavia piena consapevolezza che le ferite hanno bisogno di tempo per essere guarite”.
Ma i risultati conseguiti sin qui quali sono? Indicano che la strada prescelta pur nelle difficoltà possa dare frutti? Li ha dati? “Il primo è che dal settembre 2018 tutti i vescovi della Chiesa cattolica in Cina sono in piena comunione con il Papa e non ci sono più state ordinazioni episcopali illegittime. Infatti, nella Messa celebrata da qualunque sacerdote cinese si menziona esplicitamente il papa nella preghiera eucaristica. Questo era impensabile anni fa. Il secondo frutto sono le prime sei ordinazioni episcopali avvenute nello spirito dell’Accordo e in conformità alla procedura stabilita, che lascia al Papa l’ultima e decisiva parola. Il terzo frutto è che in questo tempo anche i primi sei vescovi «clandestini» hanno ottenuto di essere registrati, e dunque di ufficializzare la loro posizione, venendo riconosciuti come vescovi dalle istituzioni pubbliche. In quattro anni sono avvenute le prime sei ordinazioni, mentre altre procedure sono in corso. Ci sono ancora numerose diocesi vacanti e altre hanno vescovi molto anziani. In alcune diocesi le tensioni intraecclesiali permangono. In altre, invece, nonostante l’Accordo, non si riesce ad avere un proficuo dialogo con le autorità locali. Nessuno nasconde le difficoltà che toccano la vita concreta delle comunità cattoliche. E tuttavia ci sono le basi sulle quali è possibile migliorare la collaborazione tra la Santa Sede, le autorità centrali, i vescovi con le loro comunità e le autorità locali. L’Accordo non è la soluzione di tutti i problemi, ma l’avvio deciso di un cammino lungo, che può essere faticoso. Sofferenze e difficoltà passate e anche recenti, dovute a pressioni e ingerenze inopportune, sono sempre davanti allo sguardo della Santa Sede sulle vicende della Chiesa in Cina. C’è pure la piena consapevolezza della difformità di reazioni tra i cattolici cinesi di fronte all’Accordo. Tutto questo fa parte del processo in corso. Ma, ha precisato il cardinale Tagle, «occorre sempre “sporcarsi le mani” con la realtà delle cose così come sono». E tanti sono i segnali che attestano che molti cattolici cinesi hanno colto l’ispirazione seguita dalla Santa Sede, e sono grati e confortati dalla piena comunione con il Papa e la Chiesa universale”.
Una strada tutta in salita, certamente, ma è difficile vederne un’altra.