Tutta l’opera cinematografica – tre dense puntate televisive di “Esterno notte”- provoca sentimenti contraddittori. In parte è sempre così, inevitabilmente, se l’oggetto è dato da una vicenda storica che grava tuttora sulla coscienza collettiva del Paese. Nelle ultime sequenze fa capolino l’inveterato pregiudizio sulla inamovibilità della classe dirigente democristiana, fin quando ovviamente è esistita la Democrazia cristiana…
Indubbio merito di Bellocchio è aver dato senso, a quasi mezzo secolo di distanza, al clima di cupezza che abbracciò i 55 giorni del sequestro e omicidio di Aldo Moro. Gli anni bui del terrorismo hanno il loro epicentro in questo episodio di eversione. Un colpo di Stato? Giovanni Galloni, all’epoca vice segretario vicario della Dc, non ebbe mai dubbi a riguardo: si trattò del più grave attacco all’ordinamento della Repubblica che mai si concepì e produsse dal secondo dopoguerra in avanti. La democrazia italiana, senza ricorrere a misure eccezionali, quali la sospensione delle garanzie di libertà personali e collettive, seppe reggere alla prova. L’offensiva del terrorismo fu sconfitta nonostante la sua virulenza e ramificazione, non senza opache coperture a livello internazionale.
Moro poteva essere salvato? All’interrogativo “Esterno notte” risponde con la raffigurazione di un potere in stato confusionale, pervaso di ambiguità e impotenza. Al contempo i brigatisti, divisi al loro interno, su un punto erano fermi, e cioè sul cosiddetto riconoscimento politico che lo Stato avrebbe dovuto accettare, ammettendo l’esistenza di un “eversore legittimo” con il quale intavolare, nello scenario di guerra civile, un negoziato tra parti belligeranti. Se ciò fosse accaduto, l’azione brigatista avrebbe raggiunto l’obiettivo principale, mai dissimulato, consistente nella totale destabilizzazione del quadro politico e istituzionale. In gioco non era solo una formula parlamentare, quella della solidarietà nazionale, che tanto inquietava le cancellerie di mezzo mondo, bensì la stessa democrazia parlamentare o meglio, a ben vedere, la democrazia in quanto tale.
Il Moro di Bellocchio, così attaccato alla vita, mostra il volto del Grande Accusatore. Sta qui la poesia del racconto, come pure il dolore e la rabbia. Nulla di tutto questo può sobbarcarsi l’onere della fedeltà assoluta alle risultanze di una mole considerevole di ricostruzioni e indagini, fino alle conclusioni elaborate ultimamente dalla Commissione Fioroni. Va da sé che il realismo della politica esige un altro registro espressivo, per non soccombere alla tirannia dell’emozione. Moro accusa i suoi amici, ma non risparmia nemmeno gli altri, vale a dire i comunisti; i primi hanno il demerito di piegarsi alle esigenze dei secondi e insieme, democristiani e comunisti, quello di portare sulle loro spalle il peso di una condotta implacabile. E il Papa? Anche lui sarà chiamato in causa: farà pochino e, secondo un Moro oltremodo scoraggiato, “ne avrà scrupolo”.
Tutta l’opera cinematografica – tre dense puntate televisive – provoca sentimenti contraddittori. In parte è sempre così, inevitabilmente, se l’oggetto è dato da una vicenda storica che grava tuttora sulla coscienza collettiva del Paese. Nelle ultime sequenze fa capolino l’inveterato pregiudizio sulla inamovibilità della classe dirigente democristiana, fin quando ovviamente è esistita la Democrazia cristiana. Si vedono ancora Cossiga e Andreotti, anche dopo la tragedia di Moro, assurgere a nuove responsabilità pubbliche. È un dato di fatto. Senonché, dettaglio non proprio insignificante, questa “eternità della Dc” ha coinciso con la reiterata conferma di un largo consenso di popolo. La Dc, insomma, non è stata un’invenzione e non ha rappresentato un sopruso. Ciò anche per effetto di una grande lezione di stile e contenuto politico, sempre in funzione della crescita democratica e dello sviluppo civile, che Moro incarnò a lungo nel rapporto con la società italiana. Chi volle spezzare questa complessa trama di valori ed esperienze, mirava a indebolire strutturalmente l’Italia. E così è stato, purtroppo.
P.S. Quel 16 marzo un gruppo di ragazzi si radunò alla spicciolata nella sede romana della Dc. Piazza del Gesù era blindata. Presero le bandiere e prepararono gli striscioni, senza ordini… dall’alto. Poi scesero in corteo e si avviarono, con altri che s’aggiunsero man mano, verso San Giovanni. Nel film uno spezzone d’epoca attesta come l’ingresso in piazza del drappello dell’Atac fosse accompagnato dallo slogan “Moro è qui con tutta la Dc”. Per giusta memoria, occorre pur dire che l’invenzione dello slogan fu opera dei quei ragazzi.