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Cronistoria di una misura sbagliata. Il reddito di cittadinanza visto da Bonanni

Più che protestare è necessario subito rimediare modificando radicalmente la realtà delle cose. Ad esempio: separare nettamente i poveri che non possono lavorare per limiti gravi e per anni avanzati, includendoli nell’assistenza almeno a pari sussidi di quelli che percepiscono. L’analisi di Raffaele Bonanni, già segretario generale Cisl

Appena il governo si è deciso a modificare alcuni presupposti del Reddito di cittadinanza, subito i 5 Stelle sostenuti da qualche sindacalista e dalla sinistra di sinistra, hanno gridato all’attentato contro i poveri. Ma tra le macerie di questo provvedimento, tra i primi varati dall’esordio al governo di Giuseppe Conte, possiamo solo trovare errori marchiani che hanno reso ancora più poveri i poveri.

La misura venne annunciata il 28 settembre 2018 dal balcone di Palazzo Chigi, ad una folla di parlamentari ed attivisti grillini con bandiere e striscioni, trasfigurando il palazzo del governo italiano per qualche ora nella Casa Rosada di peronista memoria. La misura, distorcendo le filosofie economiche, fu annunciata manovra economica espansiva e nacque come strumento temporaneo finalizzato alla inclusione nel lavoro di chi ne era privo. Ma un sociologo nostrano, riferimento culturale dei grillini, la presentò come funzionale alla logica della “decrescita felice” teoria del filosofo francese Gorz; una sorta di risarcimento da opporre alla fine del lavoro a causa dello sviluppo tecnologico che robotizza tutto il processo del lavoro che rende superfluo il lavoro umano.

Dunque il reddito di cittadinanza venne partorito in un clima per nulla legato a proposito dell’ingresso al lavoro dei disoccupati, né inquadrato alla strategia di migliorare la qualificazione dei sussidiati. Insomma, i due milioni e mezzo di persone coinvolte nelle liste, la più grande e costosa operazione sociale dalla unità d’Italia ad oggi, a distanza di più di tre anni, tali erano e tali sono rimasti: chi era privo di professionalità è rimasto al palo, i giovani privati di un preziosissimo lungo tempo di esperienza.

Per questo disegno strampalato si assunsero circa 3 mila cosiddetti “navigator” che dovevano, seppur del tutto inesperti, secondo le narrazioni del governo Conte, indicare le strade più efficaci per occupare i disoccupati. Cioè disoccupati inesperti che dovevano trovare lavoro a milioni di altri disoccupati. Inoltre si assunsero altre migliaia di persone presso i centri pubblici dell’impiego e si investirono miliardi di euro per renderli funzionali, ma di risultati non si sono avuti. Va ricordato che qualora non ci fossero le agenzie private, le attività di incontro tra domanda ed offerta di lavoro sarebbero praticamente pressoché inesistenti. Eppure queste non sono per nulla coinvolte nelle attività di gestione delle politiche attive del lavoro, compresi gli incarichi di affidare loro le liste dei disoccupati per trovare sbocchi lavorativi.

Eppure i costi per lo Stato sarebbero stati zero, cosi anche per gli assunti, datosi che in questi casi gli oneri sono a carico delle imprese. D’altronde i veri intenti nascosti, li troviamo nella legge che dava possibilità di rifiutare il lavoro per ben tre volte. Il posto di lavoro da accettare sarebbe dovuto essere funzionale alla logica bertoldiana: “congruo”. Dunque nel bilancio dei costi intestati ai poveri ora più poveri, si sono spesi circa 50 miliardi, tra sussidi fruiti e nuovi assunti e strumenti collegati per le politiche attive, in verità mai realizzate.

Dunque una esperienza sbagliata che ha avuto altissimi costi ed alcun beneficio. Ma dovremmo conteggiare anche il danno grave per la sensazione data ai giovani che si potesse vivere a carico dello Stato, anche rifiutando qualsiasi lavoro indesiderato. La verità è che due terzi della platea del reddito di cittadinanza sono inoccupabili: una parte non professionalizzata e dunque senza alcuna possibilità di essere desiderati dalle imprese; l’altra perché impossibilitata per età ed altre ragioni; un’altra parte ancora perché semplicemente non intendeva accettare proposte di lavoro e magari in alcuni casi lavorando in nero.

Più che protestare è necessario subito rimediare modificando radicalmente la realtà delle cose. Ad esempio: separare nettamente i poveri che non possono lavorare per limiti gravi e per anni avanzati, includendoli nell’assistenza almeno a pari sussidi di quelli che percepiscono, mentre gli altri, i disoccupati con oltre 40 anni, potranno conservare il sostegno alla condizione di essere disponibili al diritto dovere di percorsi formativi e di accettare offerte di lavoro come qualsiasi altro lavoratore. I giovani certamente dovranno essere sostenuti da agenzie private e pubbliche per trovare loro un lavoro ed a fruire di altre agevolazioni non onerose, e però dovranno essere disponibili come ogni altro giovane del mondo a iniziare le loro esperienze lavorative.

Si parla di modifiche da apportare alle prime proposte governative, ed è un bene per tutti che la logica che le deve ispirare non possa che essere proprio il contrario della esperienza fatta. E allora la protesta si giustificherebbe, ma per come le cose sono andate, solo se l’impianto normativo rimanesse tale e quale a prima.


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