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Un Caravaggio sturm und drang per Scamarcio e Placido

Michele Placido con “L’ombra di Caravaggio” costruisce sapientemente un biopic hollywoodiano sulla vita e l’arte di Michelangelo Merisi. L’attenta cura della fotografia e la bravura degli attori (Riccardo Scamarcio, Isabelle Huppert, Micaela Ramazzotti, Vinicio Marchioni, Moni Ovadia) bilanciano una sceneggiatura che cattura il pubblico seppur con qualche riserva. La nota del critico Eusebio Ciccotti

Se volessimo trovare un antecedente di tutti i realismi dell’arte, dalla pittura, alla letteratura, al teatro al cinema, forse il modello-archetipo potrebbe essere la pittura di Caravaggio. Sicuramente, quando due secoli abbondanti dopo arrivò la fotografia, diversi sentenziarono, “nelle sue tele era già anticipato il realismo fotografico!”.

Qualcuno teorizza che Caravaggio utilizzò la camera ottica per scolpire con la luce le sue figure e raggiungere un realismo così marcato, quasi tridimensionale, diremo oggi. Per tornare al cinema, sia in bianco e nero che a colori, come non vedere citazioni palesi o indirette della pittura di Caravaggio, in diverse declinazioni del realismo attraverso un cromatismo luministico in alcuni “quadri” filmici, quali per esempio, di Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Stanley Kubrick, Henry Kümel, Clint Eastwood o Kim Ki duk?

Per tale ragione la frase che Michelangelo Meriggi (Caravaggio) pronunzia in sua difesa davanti al tribunale dell’Inquisizione che lo interroga circa il “volgare” ritrarre nelle sue tele figure sacre prendendo a modelli, prostitute, bisessuali, barboni, ubriachi, in L’ombra di Caravaggio (2022), diretto da Michele Placido, “io ritraggo il reale, la sofferenza (…) questo è cristiano” è il colorato prisma che ci viene offerto dal regista per leggere un catturante biopic, che non si vergogna certo di accarezzamenti hollywoodiani (flou, sdoppiamenti di immagine), ma nasconde in sottotraccia studiati riferimenti culturali alla tradizione del cinema europeo. Sicuramente, Michele Placido e il suo attento direttore della fotografia, Michele D’Attanasio, si sono rivisti La ragazza con l’orecchino di perla di Peter Webber (2003), con la fotografia del portoghese Eduardo Serra o, magari, Le memorie di Giorgio Vasari (2016) di Luca Verdone fotografato mirabilmente “a candela” da Gianluca Gallucci.

Provate a far caso alla luce che entra nella prigione di Castel Sant’Angelo, dove Caravaggio è momentaneamente detenuto, e attraversa la gabbia di ferro dove è rinchiuso il frate Giordano Bruno, destinato al rogo, e si va a posare sullo zigomo destro del frate filosofo. Ma tutti gli interni, soprattutto gli “studi” dove lavora di volta in volta Caravaggio, nella sua vita ritmata da fughe, duelli, amori, dolori, arresti, ridanno allo spettatore il cromatismo delle sue tele, reso con i bilanciamenti delle candele sempre in campo (ma naturalmente il digitale oggi permette dei perfezionamenti luministici sia in fase di ripresa che in post-produzione).

La struttura del rècit poggia su un’indagine di un “inquisitore” inviato da Papa Paolo V, chiamato “L’ombra” (Louis Garrel, perfettamente innestato nella parte dell’odioso inquisitore) che ha il compito di raccogliere le prove contro Michelangelo Merisi, detto “il Caravaggio” reo di pittura oscena e anticristiana, nonché vita dissoluta “con donne e ragazzi”.

Così il racconto, sceneggiato da Michele Placido, Fidel Signorile e Sandro Petraglia, creando una studiata suspense, va indietro rispetto al 1609, incipit del film, anno in cui il pittore ha riparato in Napoli poiché condannato a morte a Roma, per omicidio. Vediamo poi come il pittore lombardo si fosse ben inserito nella città dei Papi sin dal 1592: lavorava dipingendo innovativi quadri religiosi, assai richiesti dalla nobiltà romana nonché parimenti amati dall’alto clero, dipinti che vivranno nei secoli.

Lo spettatore entra man mano nella vita di Michelangelo Merisi tramite le testimonianze, montate in flashback (come nel recente Dante di Pupi Avati; il modello narrativo è quello inaugurato dal Citizen Kane, 1941, Orson Welles), di chi lo ha conosciuto: nobildonne e prostitute, amici, artisti e popolani miserrimi (vedi lo straccione che si stende sulla croce portata nello studio per il dipinto, poi famoso, La crocifissione di Pietro), tutti costretti a parlare sotto allusiva minaccia.

Nel suo continuo fuggire di Stato in Stato (riparerà anche a Malta) e nell’attraversare il corpo lacerato delle città (Napoli, Roma), Caravaggio incontra in carcere, come anticipato, Giordano Bruno (eccellente Gianfranco Gallo, per niente lezioso o intellettuale), che con musicale accento napoletano avvolge la sua teoria di un fascino irresistibile: “Ci sono altri cieli, altri mondi, altri universi (…)” (il noto terzo libro di De l’infinito universo et mondi, MDLXXXIIII). In questa inarrestabile discesa agli inferi compiuta dal pittore nei quartieri poveri e negli ospedali improvvisati di una Roma popolare, brulicante di straccioni, prostitute, ladri e rivoli di liquami, ecco un’altra figura, quella del futuro santo infermiere, Filippo Neri (Moni Ovadia, mirabile nel ruolo di un novello Mosè pensieroso ma ottimista), mentre allevia i dolori dei malati con cure e parole colme di misurato ironico conforto. E poi la delicata pittrice Artemia Gentileschi, personaggio schizzato troppo rapidamente (lo spettatore si attendeva almeno due battute sul fare pittura con Michele), minacciata dall’Ombra “perché le donne non debbono occuparsi di arte”.

Forse lo specialista avanzerà a L’ombra di Caravaggio due rilievi: uno storico e uno stilistico. Non tutti gli studiosi, questa la prima obiezione, accettano la ricostruzione storica formulata dallo studioso Vincenzo Pacelli, circa la morte dell’artista a Palo di Ladispoli, assassinato per un regolamento di conti. Resiste tra altri studiosi la prima ricostruzione storica. Quella riferentesi a un nuovo imbarco del Merisi verso il nord del Lazio, per sfuggire alle guardie pontificie, e la conseguente morte avvenuta per malaria a bordo. Gli sceneggiatori, diligentemente, optano per l’assassinio che si presta maggiormente al film d’azione, del resto siamo in un film di finzione, anche se la soluzione fotografica con dominanti scure, espressioniste, smorza il finale. L’altra chiusa non scelta, magari in pieno giorno, in mare aperto, forse avrebbe consentito echi tarkovskiani.

Secondariamente, genera qualche perplessità l’eccessivo sbilanciamento verso l’aspetto mondano e le questioni private (i ripetuti duelli alla Dumas con Giovanni Baglione – bravo Vinicio Marchioni). Purtroppo la fattura hollywoodiana del tema, del “bello e dannato”, più che legittima ai fini di una distribuzione internazionale, cui Placido argutamente mira, è ottenuta, ci pare, a sottrazione di momenti di riflessione sull’atto creativo, sul mestiere. Utili passaggi narrativi presenti, per esempio, nell’Andrei Rublëv di Andrei Tarkovski o nel Van Gogh di Maurice Pialat, aspetti drammaturgici necessari quando si entra nel biopic di un artista (vedi anche il Mozart di Milos Forman).

Ma nonostante tali lievi riserve va detto che il film, dal montaggio sincopato di Consuelo Catucci, fasciato dalle musiche avvolgenti di Umberto Iervolino e Federica Luna Vincenti, gratifica assai il pubblico anche grazie alla bravura di tutti gli attori. Eterea e al tempo stesso decisa Isabella Huppert nel ruolo di Costanza Colonna, colei che difenderà sempre Caravaggio offrendogli ospitalità; riflessivo e millimetrico nelle espressioni del volto Maurizio Donadoni, un credibile Papa Paolo V; mai sopra le righe Micaela Ramazzotti, nei panni della dolce prostituta e perfetta modella Lena Antonietti. Riccardo Scamarcio, infine, offre allo spettatore un Caravaggio Sturm und Drang, con lo sguardo tra il genio e il folle, che non sarà quello che ogni amante del pittore si era figurato negli anni di studio, a scuola o all’università, ma sa condurre il personaggio romanticamente, con una punta di spleen, verso una redenzione laica tra i fiori del male.

 


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