È nata una nuova rivista diretta da Umberto Ranieri e Fabrizio Cicchitto, Civiltà socialista. Il termine “socialismo” è la grande vittima di quella modernità malata che è la cifra vera di un’Italia, che non sa più a che santo votarsi. L’obiettivo è proprio contrastare questa deriva. Avendo a mente però che ragionare sulla nazione vuol dire comprendere anche il quadro geopolitico di cui facciamo parte
Auguri alla nuova arrivata: la rivista di cui Umberto Ranieri e Fabrizio Cicchitto sono i due direttori. Il titolo – Civiltà socialista – è costituito dall’ accostamento di due parole entrambe maledette. La prima – “Civiltà” – evoca un modo di stare al mondo: confronto civile, seppure tra pensieri contrapposti; ricerca di una qualche verità storica; bando al cialtronismo. Merce rara in questi giorni bui. Il termine “socialismo”, a sua volta, è la grande vittima di quella modernità malata che è la cifra vera di un’Italia, che non sa più a che santo votarsi. Il nuovo nato vuole contribuire, per quello che potrà, a contrastare questa deriva.
Palazzo Wedekind. Corpose relazioni di Cicchitto e Ranieri, nel rievocare la storia dei fratelli-coltelli, comunisti e socialisti di allora, nel lungo dipanarsi della storia italiana. Quindi il dibattito: Mario Ajello, Sergio Pizzolante, Ferdinando Adornato, Claudio Martelli, Claudio Petruccioli, Mario Raffaelli, Bobo Craxi, Alessandra Servidori. E subito un tema, seppur con le dovute eccezioni (Petruccioli ed Adornato), destinato a divenire dominante, data l’attuale congiuntura: la crisi del Pd. Riflesso soprattutto degli errori di un gruppo dirigente che ora rischia di arrendersi, di fronte all’abbordaggio dei 5 Stelle.
Che questo sia un problema non vi può essere dubbio alcuno. Meno convincente è invece l’ipotesi che esso possa essere compreso isolandolo da un contesto di carattere più generale, che riguarda non solo l’Italia, tutta intera, ma un quadro geopolitico in sommovimento. I grandi cambiamenti che si sono verificati negli equilibri politici del Paese, si pensi solo alla storia di Fratelli d’Italia, meritano di essere raccontati e compresi allargando l’analisi ai dati della struttura socio-economica dei sistemi produttivi. Non siamo più all’interno di un modello di sviluppo di tipo fondista, racchiuso in frontiere invalicabili e in cui la classe operaia aveva una sua centralità. Cosa che rendeva prevedibili le possibili evoluzioni.
Oggi lo sviluppo e la crescita delle singole economie ha ben altri presupposti. La componente immateriale – ricerca, cultura, comunicazione – è sempre più determinante. Poi le macchine hanno il compito di tradurre quei progetti in merce di consumo. Se è così non ci si può meravigliare che tra gli elettori di Fratelli d’Italia, vi siano anche molti operai. Perché quegli operai non sono più quelli analizzati da Antonio Gramsci, in “Americanismo e fordismo”. Sono sempre più le “appendici”, avrebbe scritto Marx nei Grundrisse, di macchine complesse. Aristocrazia di un tempo che si è fatta massa.
Professionisti: più ceto medio che non semplice manovalanza del bel tempo antico. Come hanno inciso queste trasformazioni del profondo non solo sul Pd, ma su tutte le altre forze politiche italiane e non solo? Si pensi solo alla crescita della classe media: non solo nei Paesi sviluppati, ma nella stessa Cina. Sempre più “classe generale”, se si vuol mantenere quest’espressione, rispetto alle più vecchie declinazioni. Su un fronte diverso, impressionano i risultati del Midterm americano. La vittoria un po’ triste dei Repubblicani, rispetto alle aspettative, sta ad indicare come le generazioni più giovani non abbiano accettato un becero conservatorismo, destinato a porre dei vincoli sui propri comportamenti individuali.
Altri bisogni, quindi, per soddisfare i quali sono necessarie ben altre visioni, che non appartengono più agli stereotipi del ‘900. La visione è quell’elemento impalpabile che, in Brasile, spinge milioni di persone, spesso appartenenti alle stesse categorie sociali, a votare in modo contrapposto: Lula e Bolsonaro. Che, in Iran, alimenta quella rivolta che scuote le fondamenta dello Stato teocratico, grazie al gesto simbolico di donne che scoprono una ciocca di capelli. Che in Ucraina consente ad un pugno di patrioti, grazie alle armi fornite dall’Occidente, di resistere alle brutalità dell’esercito russo.
Questo è lo Zeitgeist. Quello spirito del tempo che, in passato, i socialisti italiani, seppero interpretare, valorizzando i cambiamenti sociali in atto nella realtà italiano. Quella “Milano da bere”: subito criminalizzata dal doppio conservatorismo catto-comunista. Erano degli eretici. E come tali sono stati trattati. Non bruciati sul rogo, ma messi alla gogna ed il nome “socialismo” cancellato dai libri di storia. Erano eretici, ma avevano ragione. Le loro parole d’ordine adeguate. Rimbalzate negli anni seguenti, ma interpretate in modo distorto da nuove élite, incapaci di coglierne il senso più profondo.
Oggi è lo stesso tornante della storia. Un mondo che è andato avanti, ma che le analisi, per quanto sofisticate, non riescono a dominare. E allora si tenta di riprendere il filo, ricominciando da dove si era lasciato. La classe operaia, le periferie, le grandi diseguaglianze, i diritti civili e quelli sociali, la sinistra che deve rigenerarsi. Tutte cose vere: per carità. Ma è un po’ come cercare ancora le vecchie “catene di montaggio” e scoprire invece ch’esse sono state sostituite dalle “grandi catene del valore”. Da una produzione che è ormai cosmopolita. David Ricardo, con le sue teorie sul vantaggio comparato, riguardante il commercio internazionale, che batte Carlo Marx.
Questi sono, almeno ad avviso di chi scrive, i temi su cui ci si dovrà esercitare. Non si tratterà di abbandonare la congiuntura politica e le sue emergenze. Ma di non isolarle da un contesto di carattere più generale. E allora bene ragionare sulla sinistra. Ma di una sinistra che fa parte della nazione. Di una nazione che fa parte dell’Europa. Di un Europa che è Occidente. Di un Occidente che si batte contro chi, come Putin, lo considera la forma degenerata di un passato, che è stato solo violenza coloniale e imperialismo. Una matassa, indubbiamente, arruffata. Ma se non fosse così, oggi avremmo ancora Romano Prodi alla testa dell’Ulivo e Giorgia Meloni non sarebbe l’inquilino di Palazzo Chigi.