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Influenza emiratina, gelo saudita. I dossier di Biden nel Golfo

Biden

Gli emiratini hanno una presenza pervasiva all’interno del mondo politico, economico e culturale americano. Secondo l’intelligence statunitense è un’attività di influenza troppo spinta. Washington continua ad avere difficoltà nel dialogo col Golfo

Il National Intelligence Council ha redatto un report contenente le attività di influenza costruire dagli Emirati Arabi Uniti all’interno del sistema politico, economico e socio-culturale statunitense e ha messo nero su bianco che quello che Abu Dhabi fa in termini di lobbying e relazioni è più simile ad attività di spionaggio che a una cooperazione strategica e sincera.

“La comunità di intelligence degli Stati Uniti è generalmente lontana da qualsiasi cosa che possa essere interpretata come uno studio della politica interna americana”, ha detto Bruce Riedel, senior fellow della Brookings Institution che ha fatto parte del Consiglio nazionale di intelligence negli anni ’90, in un commento al Washington Post — che ha ottenuto informazioni esclusive sul rapporto di intelligence da tre diverse fonti.

“Fare una cosa del genere su una potenza amica è anche unico. È un segno che la comunità di intelligence degli Stati Uniti è disposta ad affrontare nuove sfide”, ha aggiunto.

Che gli emiratini fossero molto bravi a gestire le relazioni con Washington è ben noto. Il lavoro dell’ambasciatore Yousef al Oriana è eccezionale: la feluca è passata dalla presidenza Obama a quella Trump sino all’attuale Joe Biden — tre realtà diverse — mantenendo sempre una propria centralità. E d’altronde che la relazione tra gli Stati Uniti e gli Emirati siano speciali è evidente: Abu Dhabi ha ottenuto forniture di armamenti uniche (tanto che Israele si è preoccupata in passato perché temeva di perdere il ruolo di primus inter pares tra gli alleati Usa mediorientali), beneficia degli Accordi di Abramo, non ha subito le pressioni politico-mediatiche riservate ai sauditi.

D’altronde Mohammed bin Zayed, ora presidente ma da tempo factotum del Paese, non ha commesso scivoloni come quelli del saudita Mohammed bin Salman sulla vicenda Khashoggi e più recentemente sull’Opec+. C’è un’interlocuzione con Washington riguardo alla esposizione di Abu Dhabi alla Cina, tuttavia se si dovesse fare una classifica sul più fidato alleato americano dell’area Medio Oriente e Nord Africa, dopo Israele, gli Emirati sarebbero in testa. E forse qualcuno a Washington ha voluto mettere un punto sul perché di questo rapporto speciale.

Il National Intelligence Council, o NIC, è il principale centro di analisi della comunità di intelligence. I suoi prodotti attingono alle informazioni delle 18 agenzie di intelligence della nazione per parlare con una sola voce delle questioni più urgenti di sicurezza nazionale. I report redatto arrivano sul tavolo del Director della National Intelligence e poi nello Studio Ovale. Sul piatto c’è certamente un questione di politica estera, ma anche una relativa alla regolamentazione delle attività di influenza interne a cui gli Stati Uniti si espongono. Argomento su cui il Congresso sta già lavorando.

I sostenitori della riforma sulle attività straniere negli Usa ricordano anche il processo federale a Thomas Barrack, consigliere di lunga data dell’ex presidente Donald Trump, che questo mese è stato assolto dall’accusa di aver lavorato come agente degli Emirati Arabi Uniti e di aver mentito agli investigatori federali. I procuratori statunitensi hanno accusato Barrack di aver sfruttato il suo accesso a Trump per avvantaggiare gli Emirati Arabi Uniti e di aver lavorato su un canale di comunicazione segreto che prevedeva il passaggio di informazioni sensibili a funzionari emiratini.

Chi ha fatto arrivare al WaPo, e dunque ha esposto a mezzo mondo la questione emiratina, potrebbe aver voluto mostrare le difficoltà dell’amministrazione Biden nei rapporti con il Golfo, che nella precedente amministrazione erano particolarmente buoni. Allo stesso tempo non ha però voluto nemmeno troppo favorire Trump, ricordando la questione di Barrack. 

Nel frattempo dai giornali è stata anche masticata la notizia che gli Stati Uniti e i sauditi non hanno avuto incontri ufficiali al G-20, dopo che ad annunciarlo era stato il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan. “Non credo che sia previsto un incontro con bin Salman da parte di un membro della delegazione statunitense”, ha dichiarato, sottolineando quanto in questo momento i rapporti formali e pubblici tra Washington e Riad siano freddi. Il gelo è calato quando i sauditi hanno deciso, in sede OPEC+ (ossia con la Russia), di tagliare di due milioni di barili al giorno le produzioni di petrolio, nonostante gli Stati Uniti chiedessero una decisione praticamente opposta.

Su entrambi i dossier pesano anche i rapporti che questi Paesi stanno costruendo non tanto con la Russia, quanto con la Cina: un tema su cui Washington ha un approccio piuttosto dualistico. Emirati e Arabia Saudita sono per lungo tempo stati capisaldi della presenza americana in Medio Oriente. Qualcosa sta cambiando nella percezione reciproca, c’è una sorta di aumento della sfiducia, e questo complica le relazioni. Relazioni che tuttavia difficilmente potranno rompersi, visto gli ingressi reciproci a mantenerle attive.

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