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Tutti i limiti della politica tedesca. L’analisi di Polillo

L’euro, che doveva essere lo strumento per imbrogliare la potenza tedesca, era destinato, invece, a trasformarsi nel più forte strumento di supremazia. Dal 2001 ai giorni d’oggi, l’economia tedesca ha macinato avanzi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti superiori al 6 per cento del Pil

Spiace dirlo, ed ancor più scriverlo, ma la Germania non è mai stata la forza principale che ha trainato l’unificazione europea. Sergio Fabbrini ha, quindi, pienamente ragione nel criticare l’unilateralismo ed il nazionalismo di Olaf Scholz, dalle pagine del Sole 24 Ore (27 novembre). Unica obiezione: non fu l’unico. Prima di lui era stato la volta di Gerhard Schröder. Si sa come finì. Nelle fauci dell’orso siberiano, nel buen retiro di Gazprom. La bestia nera che sta distruggendo l’Europa e non solo. Ma prima ancora Willy Brandt, il padre dell’Ostpolitik. Quel progressivo riavvicinamento verso l’URRS, negli anni ‘70, con il fine di giungere alla riunificazione del proprio Paese. Deutschland über alles: (strofa poi modificata nell’inno tedesco): quel faro che ancor oggi illumina le scelte della classe dirigente di quel Paese.

Lo si era visto fin dagli anni ‘50, con la nascita della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Voluta soprattutto dai francesi e dai tedeschi, ma fin dall’inizio osteggiata dagli inglesi, era qualcosa di diverso dal sogno del “Manifesto di Ventotene” di Altieri Spinelli, anche se ne risentiva del relativo fascino. Più realisticamente voleva porre fine al contrasto decennale, che aveva portato soprattutto Francia e Germania a guerre sanguinose, per il controllo delle principali zone carbonifere, collocate a metà strada tra i due Paesi.

Ma senza andare così lontano nel tempo, basti pensare a come avvenne la sospirata riunificazione, la cui contropartita fu la nascita dell’euro. Dopo il crollo del muro di Berlino, Helmut Kohl, ch’era Cristiano-democratico (a dimostrazione di una continuità che prescinde dalle appartenenze politiche), fondò la sua strategia sulla necessità di non creare discriminazioni tra i tedeschi dell’est e quelli dell’ovest. Anche se i primi non avevano certo i livelli di produttività dei secondi.

Contravvenendo, pertanto, ad ogni logica economica il cambio tra le due valute (quella dell’est e quella dell’ovest) fu deciso alla pari. Ne derivò un immediato trasferimento di potere d’acquisto a favore dei nuovi entrati e quindi un balzo immediato del livello di inflazione. Non essendo possibile corrispondere con un aumento immediato dell’offerta alla nuova domanda, Per contenere la quale la Bundesbank alzò i tassi di interesse ad un livello tale da determinare la crisi dello SME (sistema monetario europeo). E la grande crisi non solo economica del 1992.

Riunificato il Paese, la nuova classe dirigente (lo stesso Schröder ed Angela Merkel) non fecero altro che perfezionare quel vecchio modello di sviluppo, che aveva reso grande la vecchia Germania di Bonn. Forte crescita del manifatturiero, con l’idea di conquistare i principali mercati di esportazione. A monte di tutto la grande capacità produttiva dell’industria tedesca, accompagnata tuttavia da due vantaggi competitivi: una politica economica tendenzialmente deflativa, sul piano interno; la disponibilità di energia a basso costo.

La prima necessaria per spingere le industria ad esportare, comprimendo la domanda interna. Approfittando, tra l’altro del fatto, di poter risparmiare risorse, essendole stato precluso il possibile riarmo. La Nato, secondo le parole di Lord Ismay, primo segretario di quell’organizzazione era nata per tenere la Russia “fuori” dall’Europa occidentale e la Germania “sotto” gli Stati Uniti. Dando, al tempo stesso, a Francia ed Inghilterra una leadership militare indiscussa. Forniture energetiche ad un prezzo più competitivo, a loro volta, potevano essere ottenute solo grazie alle importazioni dalla Russia. Il che spiega sia l’entrata in funzione delle due linee del gasdotto Nord stream 1, nel 2011 e nel 2012. Sia di Nord stream 2, poi bloccato, su pressione americana.

L’euro, che doveva essere lo strumento per imbrogliare la potenza tedesca, era destinato, invece, a trasformarsi nel più forte strumento di supremazia. Dal 2001 ai giorni d’oggi, l’economia tedesca ha macinato avanzi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti superiori al 6 per cento del Pil. Segno evidente che la moneta unica, grazie alla compresenza di Paesi più deboli (Grecia, Spagna, Portogallo Italia, ma anche la stessa Francia), era sottovalutata, rispetto al potenziale economico e finanziario di Berlino. Ed i risultati si sono visti facilmente.

L’enorme surplus accumulato dalla Germania, grazie alla sua posizione nel commercio internazionale, è stato usato per delocalizzare le proprie industrie nei territori limitrofi (principalmente gli ex Paesi dell’est), ma soprattutto per finanziare il resto dell’Europa. Lo scorso anno la posizione patrimoniale netta, quindi crediti verso il resto degli altri Paesi, cumulata da Berlino e da Amsterdam (accostamento emblematico), era pari a quasi il 90 per cento del debito complessivo degli altri Paesi europei: Francia e Spagna in testa.

Una sorta di “last resort”, un “prestatore” seppure privato “di ultima istanza”: questo è stato ed è ancora Berlino nei confronti delle altre principali capitali europee. Con i suoi titoli di Stato – i Bund – che sono il “tallone” dell’intera architettura finanziaria europea. Un potere enorme, destinato ad avere una corrispondente valenza politica. Oggi messa in discussione dall’ improvvida scelta di Vladimir Putin di invadere l’Ucraina. Che sta costringendo tutto l’Occidente a riflettere sui limiti della propria storia più recente.

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