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Quando Luigi Pirandello andò a scuola di teatro. Ciccotti racconta “La stranezza”

Con l’intrigante e delicato “La stranezza” (2022) Roberto Andò ci racconta una eventuale genesi de “I sei personaggi in cerca d’autore” attraverso una credibile ricostruzione di un tassello della vita del famoso scrittore e drammaturgo siciliano. Toni Servillo è un pacato e riflessivo Pirandello. Picone e Ficarra sanno essere due perfetti personaggi pirandelliani immersi nella poesia

All’indomani della Grande Guerra, una tragedia mondiale che le nazioni in Europa non conoscevano dalla guerra dei Cento Anni, ma ancora più tragica, la vita riprende. Così l’arte, che del resto mai si era fermata: pensate al montaggio di opere materiche (i “merz”) e fotografiche (fotomontaggi) inventate dagli artisti (soprattutto i russi) a corto di materie prime, durante il conflitto.

Nel 1920, uno scrittore e drammaturgo italiano, conosciuto ma non famoso, Luigi Pirandello, che dal 1891 vive a Roma, come docente al Magistero, si reca in Sicilia per leggere il noto discorso per gli ottanta anni di Giovanni Verga. Questo lo spunto narrativo, biografico, di La stranezza (2022) di Roberto Andò. Pirandello (è il misurato Toni Servillo) decide anche di passare a Girgenti (suo paese) dove apprende che la sua anziana balia, Maria Stella, è da poco deceduta (qui si innesta l’intreccio finzionale a firma di Roberto Andò, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso): egli decide di pagare le spese per un dignitoso funerale con tanto di carro funebre di  prima classe, affidandosi a due sgangherati becchini locali, Onofrio (Valentino Picone) e Sebastiano (Salvatore Ficarra).

Purtroppo la salma di Maria Stella non può essere tumulata, in quanto il loculo risulta occupato. Ossia in paese, pare, si usi vendere lo stesso loculo a più parenti dei cari estinti (accade ancora oggi e non solo in Sicilia): autore di tale reato, mai denunciato, è il responsabile dell’ufficio decessi del Comune. La cassa con la salma viene posta in un deposito in attesa che si “liberi”, sotto lauta mazzetta, un loculo. Quindi Pirandello deve aspettare

In quei mesi egli attraversa una forte crisi creativa, aggravata dalle vicende famigliari: sua moglie l’anno prima (1919) è stata ricoverata definitivamente in manicomio. Lo spettatore, grazie al delicato racconto visivo e visionario di Andò, comprende la difficoltà del drammaturgo: alcuni suoi personaggi a cui questi pensa, si materializzano nel suo studio, seduti o in piedi, silenti. Essi appaiono come sospesi nel tempo: attendono che un autore li accolga e li guidi.

Il caso vuole che i due becchini siano anche attori di una squinternata compagnia teatrale che sta provando uno spettacolo. La cui scena centrale è quella di una seduta spiritica. Durante la prima accade una serie di imprevisti: durante la recita si allude allo scandalo dei loculi per cui dal pubblico il prepotente impiegato, parodiato nella finzione, reagisce inveendo contro gli attori e questi rispondono: la lite si allarga tra il pubblico in una sorta d’inattesa recita che fonde realtà e finzione, attori e pubblico.

Ciò, secondo Andò, fornirà lo spunto a Pirandello, che sta seguendo lo spettacolo in un palchetto, per la stesura dei Sei personaggi in cerca d’autore. Il film termina con la prima romana al teatro Valle nel 1921, fischiata e contestata da parte del pubblico, in quanto “buffonata”, da altri applaudita come opera d’avanguardia. Nello stesso anno la pièce riscuoterà successo in altre città sino a diventare in pochi anni un dramma conosciuto in tutto il mondo.

L’originale idea di Andò e dei suoi sceneggiatori non solo sarà una utile traccia ermeneutica per molti studenti ma soddisferà anche la curiosità di quei lettori di Pirandello che per anni si sono chiesti come gli venne tale idea di fondere la finzione cui appartengono i personaggi e la realtà cui appartiene il pubblico. Nella fattispecie di quest’ultimi che, provenendo dal mondo reale, “entrano” nella finzione, come dire “in diretta”, infrangendo la quarta parete/lo schermo finzionale.

Un tema che ha affascinato, dopo Pirandello, diversi autori del Novecento, sia nella letteratura (Horacio Quiroga, Vladimir Majakovskij, Ada Negri) che nel cinema. In quest’ultimo caso ricordiamo due splendidi esempi debitori dell’intuizione pirandelliana: La rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen e Fuga dal cinema libertà (Uciecka z kino Wolnosc, 1990) di Wojciek Marczewski.

La stranezza (titolo che rimanda alla “stranezza” della vita; a quella di personaggi quali Belluca, Mattia Pascal, Donn’Anna di La vita che ti diedi per citarne qualcuno; ma anche a noi tutti) esibisce una regia attenta nel bilanciare due diversi stili recitativi. Da una parte l’euforia e l’impeto dei commedianti (abili Picone e Ficarra), dall’altra il pacato muoversi (per esempio per le vie del paese), nei movimenti, oltre all’attenta osservazione dei dettagli della vita e dei tipi, da parte del protagonista (esemplare Toni Servillo: in un paio di pose riflessive ci ricorda il Viktor Sjöstrom del Posto delle fragole di Ingmar Bergman).

Risolto con delicatezza il flash back della moglie di Pirandello che nuda, in giardino, in una giornata assolata, ha una crisi. Lui corre a coprirla con un accappatoio, e la riporta delicatamente in casa. La mette a letto come fa una mamma con un figlio in difficoltà. Andò nota, pirandellianamente, come la follia si manifesti in piena luce, ma alimenta oscuri fantasmi diurni. Infatti, la fotografia di Maurizio Calvesi, quasi accecante negli esterni, quando è poi negli interni, sa trovare la profondità di campo nel chiaroscuro, soluzione non semplice.

Va apprezzata la camera mobile tra i giganti scaffali traboccanti di faldoni e gli immensi depositi di ammonticchiati fascicoli, negli stanzoni dell’archivio comunale (ovviamente è una iperbole di Andò, pirandelliana), che rimanda, filmicamente, ai carrelli di Toute la mémoire du monde (1956) di Alain Resnais: qui la memoria delle opere che rendono gli uomini (o così credono) immortali; là semplici certificati di morte di persone già obliate dalla nostra fallace memoria.

Inoltre, ci pare una fine soluzione linguistica tradurre il tema filosofico, squisitamente pirandelliano, della molteplicità del soggetto (“uno, nessuno, centomila”) con l’immagine del primo piano del personaggio riflessa in più specchi, quando Pirandello è seduto nel camerino al teatro Valle, mentre attende la fine della rappresentazione. Come accadeva, e nel cinema tutto torna, con il volto moltiplicato dell’adolescente Antoine, negli specchi del tavolino da trucco della madre, in I quattrocento colpi (1959) di François Truffaut (un omaggio?).


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