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Politica economica, continuità e dissonanze tra i due governi secondo Zecchini

Sul fronte della politica economica si scorge una considerevole continuità con l’indirizzo del precedente governo, particolarmente nel dedicare la maggiore attenzione alla crisi energetica e ad alleviare il peso del caro-energia su imprese e famiglie. La manovra, tuttavia, appare più ardita di quanto programmato dal governo Draghi… L’analisi di Salvatore Zecchini

Nella scorsa settimana quattro eventi appaiono segnare il corso dell’economia italiana dei prossimi mesi. Nell’ordine degli avvenimenti, la pubblicazione degli ultimi dati sull’inflazione ad ottobre, la decisione di politica monetaria della Bce, la rilevazione della produzione nel terzo trimestre e l’aggiornamento della Nadef da parte del nuovo governo. Tutti dati importanti per comprendere in che direzione si muoveranno i maggiori attori in campo economico, ma non sufficienti a diradare quella cappa di grande incertezza che rende precaria ogni previsione e provvisoria ogni azione di politica economica, come ammette lo stesso ministro dell’economia.

Sul fronte della politica economica si scorge una considerevole continuità con l’indirizzo del precedente governo, particolarmente nel dedicare la maggiore attenzione alla crisi energetica e ad alleviare il peso del caro-energia su imprese e famiglie. La manovra, tuttavia, appare più ardita di quanto programmato dal governo Draghi e per questo motivo poco coerente con il messaggio che i dati accennati mandano ai governanti.

Il rialzo dei prezzi al consumo nel mese di ottobre, all’11,9% su base tendenziale e al 12,8% armonizzato con l’area euro, dovrebbe considerarsi come una vera bomba, anche se innescata dal rincaro dei prezzi petroliferi e in minor misura da quello dei prodotti agro-alimentari. L’aumento di ottobre innalza, in particolare, la scalata dei prezzi all’8% su base annua, un ritmo mai visto in Italia e nell’area dell’unione monetaria dagli ultimi anni 90. Tuttavia, la sua gravità non origina solo da questa eccezionalità ma da due altri fattori che non sono stati tenuti nella giusta considerazione dai governanti.

Primo, il ritmo inflazionistico ad ottobre oltre a essere in ascesa, come nel resto dell’area monetaria, ha superato quello medio europeo (10,7%), mentre nei mesi scorsi si manteneva più basso. Lo stesso dato europeo è in parte calmierato dalle misure prese da Francia, Spagna e qualche altro stato, che con varie modalità hanno limitato il rialzo dei prezzi energetici. Secondo, l’impennata dell’inflazione italiana in un mese in cui le quotazioni mondiali del petrolio e del gas erano in discesa, pur restando elevate, indica che i passati rincari si stanno diffondendo in tutta l’economia e non sono più considerati come un fenomeno transitorio destinato a rientrare in poco tempo. Nella misura in cui l’inflazione si sta radicando nelle aspettative degli operatori, le imprese tendono ad anticipare i rialzi prossimi nella revisione dei propri listini, andando oltre il recupero dei passati rincari. Allo stesso modo tendono a comportarsi i lavoratori nelle loro richieste salariali. Ad assecondare le attese sull’inflazione contribuisce anche l’aumento dei prezzi alla produzione dell’industria, che ad agosto si attestava al 50,5% contro il 43,3% nell’eurozona, con indubbie ripercussioni sulla competitività.

Benché l’inflazione sia sospinta dalle tensioni dal lato dell’offerta dei prodotti energetici e alimentari, essa trova un terreno favorevole a radicarsi per l’abbondante liquidità immessa nel sistema dalla Bce nell’ultimo biennio al fine di contrastare il crollo delle attività economiche causato dalle misure di contrasto alla pandemia. Nuove tensioni sui prezzi accompagnate da spinte recessive alla produzione si sono aggiunte con la guerra in Ucraina, la scomparsa di domanda di mercato dall’Est Europeo, le sanzioni alla Russia e la stagnazione dell’economia cinese, bloccata dalle restrizioni dovute alla pandemia.

Sembra giustificato, quindi, che la Bce reagisse con ripetuti rialzi dei tassi d’interesse ufficiali nell’intento di contenere le ripercussioni secondarie del diffondersi dei rincari e placare le attese di una inflazione persistente, elevata ed autoalimentantesi. Dalla scorsa estate in poco più di tre mesi i tassi chiave della banca centrale sono stati elevati da valori prossimi allo zero al 2,25% (per la marginal lending facility), che tuttavia rappresenta ancora un livello ben al di sotto dell’andamento corrente dei prezzi. Ormai la lotta all’inflazione ha preso il sopravvento su ogni altra considerazione sull’evoluzione della crescita economica, inducendo il presidente della BCE ad annunciare la continuazione dei rialzi dei tassi fin quando emergeranno solide prove che l’inflazione sia stata piegata.

Il messaggio ai governi del presidente Lagarde è chiaro: la Bce è impegnata a raffreddare la domanda di beni e servizi in funzione disinflazionistica. Quindi rende più caro il credito e non intende intervenire a sostegno dei titoli pubblici di debito, come fatto nell’ultimo biennio, se non nelle particolari circostanze di divari eccessivi nei tassi sui bond governativi. Chiede anche ai governi con disavanzi e debiti eccessivi di rientrare verso posizioni sostenibili, riducendo disavanzi, debito e spesa pubblici.

Non tutti i membri del consiglio direttivo della Bce sono della stessa opinione, in quanto alcuni tra cui quelli italiani vorrebbero gradualità nello stringere i freni monetari, appellandosi alla natura dei fattori d’inflazione, più da offerta che da domanda, e al rischio di maggiori tensioni sui mercati finanziari dovute all’alta esposizione debitoria di alcuni paesi. La diatriba tra inflazione da offerta piuttosto che da domanda appare sempre meno giustificata rispetto ai mesi passati in considerazione del ruolo che la domanda interna continua attualmente a svolgere nel sostenere l’espansione dell’economia, nonostante il rallentamento in corso.

È questo il caso della situazione economica italiana. Nel terzo trimestre la crescita del Pil è andata ben oltre le previsioni del Def di aprile, portandosi al 3,7% contro il 3,3% atteso, a seguito della vivace ripresa delle attività nel settore servizi con l’eliminazione di molte restrizioni. In rallentamento, invece, quelle dell’industria, che risentono della perdita di importanti mercati, della forte e repentina lievitazione dei costi, del dover ricostituire le catene di fornitura di input essenziali dopo le limitazioni degli scambi commerciali con la Russia e l’Ucraina e delle incertezze sulla prossima evoluzione della domanda sia interna, sia esterna. La crescita acquisita per l’anno è, peraltro, 3,9% qualora si fermasse allo stesso livello nell’ultimo trimestre; si sconta invece un rallentamento nel quarto trimestre.

In un quadro di alta inflazione, di crescita ancora sostenuta sul fronte interno e di persistenza di elevate quotazioni dell’energia e delle materie prime sui mercati internazionali, il rallentamento della dinamica dei prezzi interni richiede inevitabilmente un raffreddamento della domanda interna oltre che un allentamento delle tensioni sui mercati internazionali. In questa logica si spiega la nuova impostazione della politica monetaria della Bce, che rendendo più caro il credito a famiglie ed imprese tende ad attenuarne la propensione alla spesa per consumi ed investimenti.

Ma la politica di bilancio quanto deve essere coerente con questa impostazione? Se fosse orientata a compensare gli effetti dei rincari dell’energia e della crescente restrizione monetaria attraverso compensazioni o nuove spese in deficit il suo contributo a spegnere i focolai interni d’inflazione sarebbe nullo. Di conseguenza, il ritorno verso la stabilità dei prezzi dipenderebbe principalmente dalla discesa delle quotazioni internazionali e da un ancor più stretto rigore monetario della Bce rispetto all’attuale orientamento. Una politica di compensazione degli incrementi di costo non sarebbe peraltro sostenibile per diversi trimestri, particolarmente in paesi con una già notevole esposizione debitoria. Un bilanciamento tra gli orientamenti delle due politiche appare, quindi, necessario se si intende riportare in tempi non lunghi la dinamica dei prezzi verso l’obiettivo di stabilità.

Un simile bilanciamento non risulta nell’impostazione che il nuovo governo ha dato con l’aggiornamento della Nadef. In particolare, assume come suo obiettivo preminente limitare l’impatto su famiglie ed imprese dell’inflazione indotta dai rincari sui mercati internazionali dei prodotti primari e dell’energia, come pure dal deprezzamento dell’euro verso il dollaro. A tal fine, ha prolungato gli aiuti a famiglie e alle imprese, estendendo i crediti di imposta per le seconde e decurtando le accise sui carburanti e le bollette dei consumi elettrici. Il costo per il bilancio pubblico si riassume in un maggiore deficit per l’anno corrente di 0,5 punti di Pil, in un saldo primario (cruciale per ridurre il peso del debito) che peggiora nel biennio 2022-2023 e in un rallentamento della riduzione del debito pubblico, che nel prossimo triennio varia tra 0,3% e 1% a seconda dell’anno. Nel 2023 il debito si attesterebbe al 141,2% del Pil, ovvero 1% Pil in più del livello al netto della manovra.

Si interviene, pertanto, sul disavanzo per coprire gli alleggerimenti fiscali, mentre dal lato delle spese le decurtazioni sono molto modeste e sollecitate principalmente dagli impegni assunti in precedenza nell’ambito del Pnrr con la spending review. Indubbiamente sussistono buone motivazioni per venire in soccorso di imprese e famiglie, in particolare l’esigenza di salvaguardare i bilanci delle famiglie, di proteggere la competitività delle imprese dalla concorrenza di quelle straniere che beneficiano di più corposi aiuti e di prevenire il dissesto di molte imprese in difficoltà ad assorbire in tempi brevi i maggiori costi. Nondimeno, lasciano a desiderare la scarsa selettività delle misure d’aiuto e l’annuncio di nuove imposizioni fiscali sulle imprese energetiche, che sono quelle che dovrebbero investire maggiormente per migliorare la vulnerabilità energetica del Paese.

Altrettanto criticabile l’atteso ricorso a entrate una tantum, quale quelle di una programmata rottamazione delle cartelle esattoriali. Appare anche discutibile che si voglia prevenire oppure mitigare una nuova recessione con estese misure di aiuto ai redditi delle famiglie e quindi ai consumi, nonché ai bilanci delle imprese, perché in assenza di ridimensionamenti della spesa pubblica si tratterebbe di confidare sempre più sull’erosione del debito causata dall’inflazione, oppure di perpetuare deficit e debiti già al limite della sostenibilità.

Nella prospettiva di ridurre la vulnerabilità del Paese è essenziale che il Paese intervenga decisamente in maniera strutturale sui nodi della sua dipendenza dall’estero nel campo energetico e in altri campi cruciali. In questa ottica un maggior impegno sarebbe opportuno nel promuovere l’efficienza nei consumi di energia, gli investimenti nelle reti di trasmissione e distribuzione, nei gasdotti e nelle strutture di rigassificazione, nella riforma dei mercati e nella ricerca e sviluppo delle  fonti alternative. La lentezza con cui avanzano i progetti in corso dovrebbe indurre a riportare anche con modifiche costituzionali il settore energetico nell’esclusiva competenza dello Stato.

In ogni caso l’evoluzione della crescita italiana nel breve periodo non dipende da generose misure di aiuto decise dal governo, perché è condizionata dalla congiuntura nell’area europea ed americana a tal punto da non poter sfuggire a una fase economica recessiva che investa il resto dell’area.


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