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Metalli critici, perché il Canada blocca gli investimenti cinesi

Il governo di Ottawa ha ordinato a tre gruppi cinesi di disinvestire da alcuni progetti minerari canadesi. Si tratta di una mossa che applica un nuovo quadro normativo per la gestione degli investimenti diretti esteri in settori ritenuti cruciali per la sicurezza nazionale. E intanto l’Indonesia…

Sotto lo stesso cielo, o quasi. In una mossa che diventerà un precedente decisivo per gli sviluppi nel settore delle materie prime critiche, il governo canadese ha imposto a tre aziende cinesi di ritirare i propri investimenti in altrettante società minerarie canadesi.

Ad annunciarlo, nella giornata di mercoledì, è stato il ministro per l’Innovazione, Scienza e Industria Francois-Philippe Champagne nel corso di una conferenza stampa di presentazione del nuovo pacchetto di misure per la modernizzazione dell’Investment Canada Act (Ica).

“Mentre il Canada continuerà ad accogliere investimenti esteri, agiremo con fermezza quando questi investimenti minacciano la nostra sicurezza nazionale e le filiere dei minerali critici, sia a livello domestico che estero”.

Secondo un’attenta analisi e revisione dei dipartimenti di intelligence deputati al monitoraggio dei rischi lungo le supply chains, secondo le direttive dell’ICA si è dovuto intervenire in tre casi specifici per bloccare e ridurre l’influenza di alcune entità cinesi. Si tratta di Sinomine Rare Metals Resources Co., Limited, che aveva siglato a dicembre 2021 un offtake agreement e un acquisto del 5,7% degli interessi dell’azienda canadese Power Metals Corp che opera sul mercato del litio; Chengze Lithium International Limited, anch’essa società quotata ad Hong Kong che aveva consolidato nel maggio di quest’anno quasi il 20% degli interessi su Lithium Chile; e infine Zangge Mining Investment (Chengdu) Co., obbligata a rinunciare all’investimento da circa 290 milioni di dollari su Ultra Lithium Inc in un progetto estrattivo in Argentina, nella provincia di Catamarca.

“Considerati i rischi inerenti e posti in essere da investitori statali o partecipati da entità straniere, la presenza di tali entità in un investimento o in una proposta di investimento in una società canadese attiva nel settore dei minerali critici” si legge nella nota di approfondimento sulle nuove line guida della normativa riguardante la tutela della sicurezza nazionale, “ci sono evidenze ragionevoli di credere che gli investimenti potessero inficiare la sicurezza nazionale del Canada come stabilito dalla Parte IV.I dell’Ica”.

Lo scrutinio, dunque, si applica tanto alle entità statali così come ad entità private ma con influenze di governi stranieri. In generale, qualsiasi acquisizione del controllo di una società canadese da parte di un’entità non-canadese è sia notificabile o sottoposta a revisione nella vigente normativa, a seconda della tipologia della transazione e del valore e della natura del business coinvolto. Un settore, quello dei materiali critici, che rappresenta per il governo di Ottawa “la chiave per la prosperità futura del paese” dal momento che il paese ospita significative riserve di cobalto, litio, terre rare, nickel e molti altri metalli essenziali per l’industria green-tech.

Un’opportunità di crescita per il governo, che presenterà a breve la sua Critical Minerals Strategy per “posizionare il Canada come fornitore leader a livello globale”, ma con un occhio vigile sulle transazioni ritenute ostili e a favore di investimenti esteri da paesi “che condividono i nostri interessi e valori”. Un chiaro posizionamento anticinese, in un’ottica di business che vede già naturalmente integrato il mercato nordamericano ora rivitalizzato dall’Inflation Reduction Act statunitense.

La sicurezza delle filiere dei metalli critici diventa condizione essenziale, non solo per i privati come Tesla. Di recente, la vice primo ministro canadese, Chrystia Freeland, ha dichiarato in una visita a Washington dell’urgenza di rafforzare i rapporti economici tra i paesi democratici – il Canada, insieme Australia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud, Svezia, Regno Unito e la Commissione europea è parte della Minerals Security Partnership a guida USA – e rimarcato l’importanza del paese come fornitore. La stessa Nazak Nikakhtar, come riporta il Financial Times, ha commentato la mossa del governo canadese “un cambio di passo nella politica di sicurezza nazionale da una visione tradizionale ad un approccio sui rischi nelle catene di approvvigionamento critiche”.

Un segnale che conferma la tendenza in atto verso il decoupling, con un ruolo sempre più decisivo dello Stato e delle agenzie di sicurezza per contenere e respingere influenze commerciali e finanziarie non gradite. Come dimostra l’esempio di un organismo creato ad hoc in Gran Bretagna. Uno scenario che vedrà consolidarsi, non senza difficoltà di coordinamento, un multilateralismo regionale, selettivo in un’industria chiave per la decarbonizzazione. Con i Paesi produttori di materie prime che già puntano alla massimizzazione dei benefici commerciali.

UN NUOVO OPEC PER I METALLI CRITICI?

Come riporta il Financial Times in un’intervista al ministro Bahlil Lahadalia, l’Indonesia avrebbe infatti lanciato l’idea di formare un nuovo “cartello” per la gestione delle forniture di nickel e altri battery metals, con un’ispirazione non troppo velata all’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (Opec).

Il tempismo della proposta, considerando la crisi energetica in atto e che quasi ci riporta agli anni 70’, è in linea con il trend di mercato: l’esplosione della domanda di litio, cobalto, nickel e grafite per l’elettrificazione della flotta automotive mondiale presenta infatti un’occasione unica. Tanto per le rendite dei paesi produttori di materie prime, quanto per la volontà di scalare la filiera e controllare la geografia del valore, senza ripetere un modello di sottosviluppo destinato solamente alle attività estrattive.

La proposta non è stata ancora formalizzata, ma ci sono già alcuni ostacoli non indifferenti. A differenza del cartello petrolifero, in cui la maggior parte delle attività estrattive erano a controllo governativo e localizzate nello stato di appartenenza, le società minerarie e di raffinazione industriale che operano nel settore del nickel in Indonesia (responsabile del 38% del nickel raffinato a livello globale), come in altri segmenti, vedono un’attiva se non dominante presenza di entità cinesi come Tsingshan, uno dei principali produttori mondiali di acciaio inossidabile e consumatore di nickel grezzo.

Il governo di Jakarta aveva già posto in essere misure di controllo delle esportazioni di nickel per favorire l’ammodernamento delle sue attività industriali, in un’ottica di incentivare lo sviluppo del settore domestico delle batterie elettriche. Una mossa che ha portato l’Unione Europea a rivolgersi al Wto contro la decisione e spinto le aziende cinesi ad investire più di 30 miliardi di dollari nella filiera indonesiana.

Senza gli investimenti e il know-how cinesi, la capacità di fornire nickel ad un livello di purezza tale da soddisfare i produttori globali di batterie al litio rimane limitata. A differenza della Russia che risulta essenziale, attraverso la controllata Nornickel, del 20% della fornitura globale di nickel classe 1, ritenuto lo standard per le batterie dall’Iea.

In una filiera complessa e globalizzata come quella delle materie prime critiche, che vede la partecipazione di Paesi con strutture di governance, mercati di riferimento e requisiti ambientali molto differenti, fare fronte comune non sarebbe un’impresa da poco.



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