La ricapitalizzazione da 2,5 miliardi messa in cantiere da Draghi e portata a termine dal governo Meloni è stata coperta per il 96,3%, grazie agli 1,6 miliardi garantiti dal Tesoro azionista e al ruolo delle Fondazioni, intervenute su espressa richiesta di Via XX Settembre. L’economista ed ex Bce Angeloni a Formiche.net: la banca resta sostenuta dallo Stato e questo rende il risanamento più difficile. Ora speriamo che i margini impediscano nuovi esborsi
Ora che la ricapitalizzazione del Monte dei Paschi è andata in porto (l’aumento è stato coperto al 96,3%, con le otto banche del consorzio di garanzia e il fondo Algebris che dovranno accollarsi azioni residue per un controvalore di poco più di 93 milioni di euro), la domanda che sorge quasi spontanea è: e adesso? La risposta è più o meno questa.
Adesso il piano industriale messo a punto, lo scorso febbraio, dal ceo di Mps, Luigi Lovaglio, può finalmente passare alla fase operativa. E il primo mattoncino, se così lo si può chiamare, sono le oltre 4 mila uscite volontarie da Rocca Salimbeni, il cui costo si aggira su per giù intorno al miliardo. Praticamente l’ammontare della quota di aumento garantita dagli investitori privati: fondi, fondazioni, piccole banche. Ma c’è forse una domanda da porsi, ora che il pericolo di finire a gambe all’aria è scampato.
E cioè, premesso che il salvataggio di Mps ha poggiato essenzialmente su due gambe, la prima quella dello Stato azionista e padrone (64%) di Siena, che ha staccato un assegno da 1,6 miliardi di soldi pubblici mentre la seconda è quella delle fondazioni bancarie, chiamate a raccolta dallo stesso Tesoro su input di Mario Draghi (in raccordo con Giorgia Meloni, fin dall’estate scorsa), non è che alla fine l’intero peso della ricapitalizzazione andrà a scaricarsi sul patrimonio (privato) delle stesse fondazioni e magari sui contribuenti italiani?
Attenzione, perché il film potrebbe essere già visto. Cinque anni fa, lo Stato per mano del Tesoro (c’era Paolo Gentiloni al governo), entrò in forze e con tutti e due i piedi dentro Rocca Salimbeni, sborsando 5,4 miliardi di euro a titolo di ricapitalizzazione precauzionale. Fu, nella realtà, una nazionalizzazione, approvata persino dall’Europa, resasi necessaria per salvare ancora una volta la banca più antica del mondo, affossata, tra le altre cose, dai contratti speculativi Santorini e Alexandria.
Insomma, come stanno davvero le cose? Formiche.net ha chiesto il parere di Ignazio Angeloni, economista presso la Robert Schuman Center of the European University Institute ed ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce. Che pur riconoscendo il valore e l’opportunità dell’operazione, non manca di fare alcuni appunti. “Arrivati a questo punto penso sia giusto fare i complimenti all’amministratore delegato, che ha condotto in porto con determinazione un’operazione non facile, e gli auguri al Paese, che essa abbia successo nel lungo termine”.
Tuttavia, “personalmente avrei preferito un’operazione più incisiva nei costi, nel capitale e nel business plan, e con un coinvolgimento privato fin da subito anche nel risanamento. Invece la banca resta sostenuta dallo Stato, e in queste condizioni il lavoro che resta da fare sarà più difficile. In prospettiva, l’aumento dei margini di intermediazione aiuterà. Speriamo che basti”.
Pochi giorni fa, sul Giornale, Nicola Porro, commentando il salvataggio di Siena, ha puntato il dito contro quello che si profila essere l’ennesimo salasso per i contribuenti. i contribuenti italiani. Che “in quattordici anni hanno fatto sei aumenti di capitale, per un totale di 25 miliardi bruciati a Siena. Peggio di Alitalia. Ma come in quest’ultimo caso, il Tesoro non ha voluto vedere la realtà. Forse era meglio accettare le proposte di Bpm e Bper di vendere loro gli sportelli (con la possibile aggiunta del Mediocredito per le filiali del centro). E il Tesoro invece di avere in mano un pugno di mosche e pagare commissioni favolose alle banche internazionali, oggi sarebbe azionista di banche sane e regionali”.