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Le tre sfide di Netanyahu. Biden, Accordi di Abramo e Cina

Cina, Casa Bianca, Accordi di Abramo: per Bibi ci sarà da gestire gli equilibri tra gli interessi interni, le componenti politiche della maggioranza e le relazioni internazionali di Israele. Il caso Ben-Gvir, con l’Amministrazione che fa trapelare di non voler averci a che fare

“Il mago” della politica, come lo chiamano i suoi ammiratori è tornato a guidare il governo israeliano, ma per Benjamin Netanyahu la vera magia non è stata la vittoria alle urne. Il ritorno era quasi dato per scontato, ora la sfida sarà quella di tenere insieme gli alleati e muovere il Paese all’interno delle dinamiche complesse regionali e internazionali che riguardano il Medio Oriente e Israele.

È abbastanza certo che le politiche su una robusta sicurezza nazionale e forte spinta alla crescita economica, vengano riprese da Netanyahu da dove le aveva lasciate poco più di un anno fa – quando, caduto il suo governo, l’esecutivo era passato in mano a un’alleanza che aveva come amalgama più che altro l’avversità nei suoi confronti. Ma oltre ai temi interni, ci saranno quelli esterni da rimodellare, anche perché nel frattempo è esplosa la guerra russa in Ucraina e con essa si sono dinamizzati meccanismi che hanno portato a nuove fluidità negli affari internazionali.

Per esempio, sebbene il mantenimento dell’alleanza con gli Stati Uniti sia sempre stata una priorità per Netanyahu nel corso della sua carriera politica, dovrà di nuovo scontrarsi con una Casa Bianca che – come ai tempi di Barack Obama – vede in Joe Biden non proprio la sponda perfetta. Differentemente, come dimostrato già dalle reazioni entusiaste di congressisti ed ex membri di amministrazioni passate, Netanyahu godrà tra i Repubblicani di un appeal insolito per un leader internazionale.

L’amministrazione Biden sta già facendo trapelare alla stampa che potrebbe “rifiutarsi di impegnarsi” (cioè ostracizzare) uno dei leader del cartello politico di estrema destra che quasi certamente sarà un ministro del nuovo governo, Itamar Ben-Gvir, su cui pendono accuse di razzismo contro gli arabi e di conservatorismo religioso ipertrofico. A prescindere dalle opinioni personali sul cananista Ben-Gvir, si tratta di un’azione rischiosa per Washington, sebbene ne è comprensibile la radice in quanto guidata dai Democratici. Da Israele sono arrivate già, in forma non ufficiale, le prime reazioni: fonti criticano i due pesi e due misure usate nel chiudere la porta a Ben-Gvir e lasciare spiragli al dialogo con gli iraniani.

Negli Stati Uniti, il tema Israele è diventato sempre più polarizzante, con un sostegno concentrato soprattutto tra i conservatori, in particolare tra i cristiani evangelici. E con una maggioranza apparentemente più ampia del previsto di 65 seggi alla Knesset e una potenziale maggioranza repubblicana al Congresso, tuttavia, Netanyahu potrebbe non avere troppi vincoli con l’amministrazione statunitense.

L’obiettivo sarà una collaborazione pacifica, dove gli apparati svolgono il ruolo principale. Netanyahu diventerà immediatamente il volto dell’opposizione al regime iraniano e potrebbe essere presto invitato dal prossimo Congresso a maggioranza repubblicana a parlare contro una ricomposizione del Jcpoa (ormai poco probabile) o il tentativo di raggiungere un nuovo accordo sul programma nucleare iraniano, come è già successo nel 2015.

Per Israele, la questione Iran è in cima alle agende di preoccupazione. Temono che prima o poi Teheran raggiunga non tanto le capacità di arricchire l’uranio a livello militare – che sono già quasi raggiunte – ma di poter miniaturizzare una testata e inserire nei missili il cui programma tra procedendo (e più di una volta Gerusalemme ha protesta a proposito). C’è la possibilità che Israele lanci un attacco preventivo contro l’Iran? Non è da escludere.

Connesso anche all’Iran e agli Stati Uniti c’è il quadro delle relazioni regionali. Il primo ministro uscente, Yair Lapid, aveva avviato un programma di implementazione per gli Accordi di Abramo – gli accordi di normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni Paesi arabi che hanno trovato anche nella volontà di contenere l’Iran un punto di contatto ai tempi in cui l’amministrazione Trump, con Netanyahu, li costruirono. “Se gli Stati arabi ritengono di essere imbarazzati da legami stretti con un governo” che confine figure come Ben Gvir, ha spiegato sul The Atlanticist il direttore della N7 Iniziative ed ex ambasciatore Usa Ben Shapiro “i progressi nell’approfondimento degli Accordi di Abramo e nella loro estensione a nuovi Paesi saranno in salita”.

Anche a questo si lega parte della presa di distanza statunitense dal leader cananista. E sarebbe un altro problema nei rapporti con gli Usa, che ritengono gli Accordi di Abramo una delle forme di maggiore successo per costruire partnership esterne con cui esercitare controllo remoto sulla regione.

Altro tema poi è la Cina. Nel corso dell’amministrazione Trump, Netanyahu ha dimostrato una crescente comprensione della minaccia che la Repubblica popolare rappresenta per Israele, dal rischio che il porto di Haifa finisca in mano di colossi come Cosco che possono mettere in difficoltà la collaborazione delle Sesta Flotta del Mediterraneo (che usa Haifa come scalo abituale per le operazioni sul lato levantino). E anche sul 5G aveva accettato i suggerimenti (o qualcosa di più) statunitensi sul non cedere ad aziende cinesi. Ma questo non è un punto di vista universale in Israele e dovrà essere costantemente rafforzato dagli Stati Uniti. Su questo, forse più di ogni altra cosa, Netanyahu si giocherà gli equilibri del rapporto con Washington.

Inoltre, “con la guerra in Ucraina che ha mostrato i legami russi con l’Iran a diventare molto più stretti e le relazioni russo-americane a peggiorare, Netanyahu potrebbe essere meno in grado di avere lo stesso buon rapporto di lavoro che aveva avuto in passato con Vladimir Putin” e di avere meno spazio “per manovrare con successo tra Washington e Mosca”, ha spiegato Mark Katz dell’Atlantic Coiuncil.

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