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Permacrisis? No, piuttosto crisi di civiltà. Scrive Malgieri

Crisi permanente. Nel mondo ridotto a mercato, e a un mercato di rottami oltretutto, chi può dire che la politica non ha avuto responsabilità, al pari della cultura, nel dispiegarsi di una crisi che non sarà frenata dalle misure dei governi, poiché la sua profondità raggiungerà le radici dell’animo umano? La riflessione di Gennaro Malgieri

Per il dizionario britannico Collins la parola dell’anno è Permacrisis. Un neologismo che vuol dire “crisi permanente”. Vale a dire il passaggio da una crisi all’altra e spesso tutte insieme a segnare uno stato di disagio, paura, difficoltà varie, un catalogo nutrito che comprende Brexit e Covid,  crash  climatico e guerra in Russo-Ucraina, emergenza energetica e immigrazione irregolare, fino alla   siccità, alla diffusione della povertà in particolare in Africa e alla rottura dell’equilibrio ambientale, per citare le più note.

Insomma instabilità e insicurezza endemiche. Per il capo delle edizioni che pubblicano il prestigioso Dizionario, Alex Beecroft, il mondo sarebbe costantemente sotto una spada di Damocle. “Abbiamo scelto questo termine – spiega –  perché riassume in modo veritiero quanto il 2022 sia stato terribile per moltissime persone”.

Un’ovvietà che forse non aveva bisogno di un termine nuovo e limitativo che sottolineasse le catastrofi continue alle quali siamo, nostro malgrado, sottomessi. Senza poter fare nulla per sottrarci ad esse, ma semplicemente adattarci ad uno stato di precarietà che si riverbera sul nostro umore e sulle nostre attività.

La parola, in verità, non è proprio nuovissima: dichiamo che è stata codificata da un prezioso ed autorevole vocabolario. Infatti, essa era stata già usata da Christine Lagarde, presidente della Bce, lo scorso aprile: “Alcuni dicono che viviamo in un’era di permacrisis: dove ci muoviamo continuamente da un’emergenza all’altra. Solo 10 anni fa abbiamo fronteggiato la peggiore crisi finanziaria dagli anni ’30, poi la peggiore pandemia dal 1919 e ora la più grave crisi geopolitica in Europa dalla fine della guerra fredda”.

Dai linguisti del Dizionario Collins, ci permettiamo di dissentire. La permacrisis non si manifesta in questo nostro tempo caratterizzato da sconquassi naturali e conflitti tra popoli e nazioni. Essa si è mostrata in tutta la sua drammaticità e continuità da tempo immemorabile, da quando abbiamo cominciato a convivere con la mancanza di un ordine morale e civile. Permacrisis, insomma, non è la successione di eventi orribili, che potremmo datare dall’11 settembre 2001, lo zenit del terrorismo di matrice islamista, e poi a seguire le numerose guerre che hanno infiammato il Pianeta e in particolare il Medio Oriente e l’Asia, per non dire delle persecuzioni di tutte le minoranze etnico-religiose che stanno estinguendosi in ragione delle avidità di alcuni Stati e dell’intolleranza politica di altri.

La Permacrisis è la conseguenza dell’affossarsi di un centro ordinatore rispetto al quale le grandi organizzazioni mondiali, a cominciare dalle Nazioni Unite, non hanno saputo mai dare una risposta alle crisi, piccole o grandi, che tengono da decenni in allarme i popoli.

Sarebbe limitativo racchiudere in un ciclo infernale le molte crisi che si affastellano giorno dopo giorno sotto i nostri occhi.

Più che il neologismo di marca inglese, è più consono definire quel che accade oggi, incominciato molto tempo fa,  “crisi di civiltà”.

Come automi senz’anima, attraversiamo le angosce del nostro tempo segnato dallo spossessamento delle ragioni dell’essere e dal dominio della conservazione degli averi. Ci aggiriamo smarriti nelle megalopoli confuse, contraddittorie, violente alla ricerca del nulla o, nella migliore delle ipotesi, di un senso al nostro vagabondare. E soffermandoci davanti alle miserie che ci si parano davanti nelle forme più volgari o banali, non riusciamo a cogliere il significato della nostra presenza nel groviglio di indistinte suggestioni che da ogni angolo ci invitano a cedere.

Ma noi non possiamo più cedere, non tanto perché votati, come per miracolo, al ripudio della modernità, ma per il semplice fatto che è la modernità stessa che ci respinge con le sue gravosissime richieste per accedere ai suoi richiami. Un controsenso, naturalmente, che tuttavia scandisce il tormento che accompagna il nostro peregrinare di occidentali cresciuti nell’adorazione di un benessere ritenuto eterno.

Da qui la crisi che non è soltanto finanziaria, politica, civile, esistenziale. Essa è essenzialmente manifestazione nichilistica della rottura tra l’essere e il dover essere, lo spezzarsi di un sogno su un sentiero improvvisamente interrottosi.

Noi che abbiamo fatto dell’“avere” un mito, anzi il mito, inspiegabilmente siamo stati svegliati dalla fragorosa caduta degli imbonitori che ci avevano raccomandato di non cedere alle lusinghe dello spirito, di tuffarci nell’avventuroso mare dell’avidità, di non ritrarci di fronte a profitti dei quali, con qualche timore, osservavamo le curve ascendenti e discendenti. Oggi siamo più poveri. E lo saremo ancora di più con il passare del tempo. E perfino del tempo saremo meno padroni. Per non dire di tutte le nostre azioni che non coincideranno con il piacere di sollievi innocenti e di passioni che con difficoltà potremo coltivare.

La crisi di cui si parla – compresa la Permacrisis – ha soltanto in apparenza contorni materici; in realtà è una crisi che si sviluppa dentro noi stessi chiamati a gettare alle ortiche le consolanti protezioni che il benessere ci assicurava. Dovrebbe spaventarci l’austerità? No: ci terrorizza. Perché dover rinunciare a tutto dopo averlo assaporato fino a restarne nauseati, è appunto terrorizzante. E scuote le certezze atrofizzate sapere che nulla sarà più come prima. Guadagni, consumi, dilapidazioni allegre, apparenza gioiosa che ha privato del piacere di riconoscere la sostanza di generazioni di donne e uomini occidentali i cui pensieri lunghi hanno finito per approdare sulle scogliere del disincanto.

Oggi ci scopriamo nudi. Questa è la crisi. O la sua estetica, se si preferisce. È la rottura; la cesura con le abitudini; l’allargarsi di un divario tra le necessità reali e i bisogni fittizi. La caduta, insomma, dell’ideale moderno nel quale il sogno si è costantemente confuso con la realtà. E il tutto accade quasi nell’indifferenza, come se si dovesse compiere una fatalità. Senza neppure la consolazione di approdare alle estreme lande dell’eterno poiché non conosciamo la strada che a esse conduce dopo decenni di edonismo selvaggio accarezzato come il bene più prezioso. E, nonostante tutto, che cosa dicono i nostri governanti, della cui opinione potremmo fare tranquillamente a meno se non fosse per il non trascurabile particolare che dalle loro scelte dipendono i nostri destini?

Ci saremmo aspettati un invito a rialzarci, a riprendere il cammino verso altri lidi, a mostrare la qualità umana di fronte alle intemperie. Abbiamo ascoltato soltanto incoraggiamenti a consumare di più, ancora di più. Tutto il consumabile anche se ben poco è rimasto. E ci siamo visti sbattere in faccia la povertà, la miseria, l’indigenza con qualche elemosina di Stato per riempire al supermercato carrelli colmi di disperazione e di disprezzo.

La crisi. Sì, morale. Poiché se il parametro della vita è il consumo, noi, senza saperlo perché nessuno ha pensato di fare un sia pur fantasioso decreto per dircelo, siamo già morti. Al sole dell’economia invadente, della finanza totalizzante, della politica immorale, della rassegnazione a non essere privi di averi. La crisi si compie nelle pieghe dellhomo consumans che non sa apprezzare la moralità regale del dono; dellhomo oeconomicus la cui unica fede è il mercato e quando questo crolla a lui non resta che cercare riposo tra le sue macerie; dello sperperatore d’intelligenza che affida la sua anima (convinto peraltro di non averla) ai broker senza scrupoli i quali sono gli unici sciamani che la modernità riconosce.

E si dispiega, la crisi, nell’individualismo egoistico che compra il tempo perché esso è denaro e lo getta in imprese che non gli sopravviveranno, a differenza di ciò che accadeva una volta, in epoche ormai lontane e dimenticate.

Lo storico delle religioni francese, Charles Malamoud ha sottolineato che “la preoccupazione di dover rimborsare l’usuraio o il proprietario risveglia inevitabilmente l’angoscia che fa nascere nell’uomo il pensiero dell’ultimo creditore, la morte. Tutto si svolge come se i debiti contingenti e parziali che l’uomo contrae nel corso della sua esistenza non fossero altro che i sintomi o l’illustrazione del debito essenziale che definisce il suo destino”.

Di fronte alla precarietà della materialità del profitto, la maggior parte degli occidentali ha reagito come se si trovasse di fronte all’ultimo creditore. E da qui la sensazione di spaesamento e di disperazione. Chi ha cercato, e cerca, nella politica una qualche consolazione, si rassegni: non la troverà. Essa è stata piuttosto, non saprei quanto inconsapevolmente, mallevadrice della crisi.

Osservò anni fa, in un libretto poco amato dagli ottimisti di professione, Serge Latouche, che “la scomparsa della politica come istanza autonoma e il suo assorbimento nell’economia fa ritornare lo stato di guerra di tutti contro tutti; la competizione e la concorrenza, leggi dell’economia, diventano ipso facto leggi della politica. Il commercio era dolce (secondo l’espressione di Montesquieu) e la concorrenza pacifica solo quando l’economia era tenuta a distanza dalla politica”.

Nel mondo ridotto a mercato, e a un mercato di rottami oltretutto, chi può dire che la politica non ha avuto responsabilità, al pari della cultura, nel dispiegarsi di una crisi che non sarà frenata dalle misure dei governi, poiché la sua profondità raggiungerà le radici dell’animo umano?

La crisi è di civiltà, non di sistemi economico-monetari o di contingenze belliche o di terrorismo diffuso. Prima ce ne rendiamo conto e meglio sarà. Per tutti. Altro che Permacrisis: l’invadenza del disagio è tale che non riusciamo più a governarla. E non bastano inutili e vaniloquenti vertici internazionali per aver ragione delle molte crisi che ci tengono in apprensione e tolgono vigore all’impresa di vivere. È il caso di riappropriarci della consapevole caducità della vita piuttosto che snaturarla lanciandoci impudentemente nel gran circo della globalizzazione dove tutto è destinato a perire.

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