Per il direttore dell’Fbi, l’app può essere manipolata e controllata dal Partito comunista, come d’altronde qualsiasi società che ha sede in Cina. Stesse considerazioni di molti parlamentari statunitensi, tanto conservatori quanto democratici. Il ceo dell’azienda dice di voler soddisfare le richieste di Washington, anche se l’idea di tenere in Texas (nei server di Oracle) i dati degli utenti americani sarebbe uno sforzo “senza precedenti”
TikTok rimane una delle minacce principali per la sicurezza degli Stati Uniti. A ribadirlo ancora una volta è stato martedì il direttore dell’Fbi, Chris Wray, che davanti alla commissione per la sicurezza interna alla Camera ha descritto il social network come un’arma nelle mani della Cina, con ci può espandere la sua influenza, controllare le cento milioni di persone iscritte – molte delle quali appartenenti alla generazione Z – e “compromettere” quei dispositivi. Tutte preoccupazioni che condivide costantemente con i legislatori, gli stessi che stanno cercando di arrivare a un accordo per rendere quantomeno innocua l’app di ByteDance.
“Secondo la legge cinese”, ha affermato il capo dell’Fbi sintetizzando il concetto, “le aziende sono tenute essenzialmente a fare tutto ciò che il governo vuole che facciano in termini di condivisione delle informazioni”. In poche parole, sarebbe il braccio destro di Pechino e “questo rappresenta un motivo sufficiente per essere estremamente preoccupati”.
“Come ha specificato il direttore Wray nelle sue osservazioni”, ha dichiarato la portavoce di TikTok, Brooke Oberwetter, “il contributo dell’FBI è considerato parte delle nostre attività in corso. Sebbene non possiamo commentare i dettagli di quelle discussioni riservate, siamo fiduciosi di essere sulla buona strada per soddisfare pienamente tutte le ragionevoli preoccupazioni degli Stati Uniti sulla sicurezza nazionale”, ha detto mostrandosi fiduciosa e ben disposta nei confronti dell’amministrazione di Joe Biden. Tuttavia, quel che sembrerebbe semplice lo è solo all’apparenza.
In primis perché molti legislatori statunitensi, tanto conservatori quanto democratici, sono molto titubanti nel dare fiducia a TikTok. Fosse per Marco Rubio, vice presidente del Senate Intelligence Committee nonché senatore della Florida appena rieletto nel midterm, e per Mike Gallagher, deputato del Wisconsin, qualsiasi strumento controllato dal Partito Comunista cinese andrebbe vietato. Ma nonostante le reticenze, il lavoro per arrivare a una stretta di mano va avanti.
Alla base del negoziato c’è la salvaguardia dei dati sensibili degli utenti. Washington chiede che l’app non trasferisca quelle informazioni in patria ma le lasci dentro i confini statunitensi. Per questo, ha chiesto a ByteDance di vendere la propria controllata a una società americana. L’altra alternativa proposta dal governo democratico, più fattibile della precedente, è quella di rimanere sotto la società madre, ma lasciando gestire i dati a Oracle che ha sede ad Austin, in Texas.
Proprio in merito alla questione si è espresso il ceo di TikTok, Shou Zi Chew, che al Bloomberg New Economy Forum di Singapore ha dichiarato di muoversi proprio in questa direzione. Ma non senza difficoltà. Il Project Texas, infatti, è “estremamente difficile e costoso da costruire”. Si tratta di uno sforzo “senza precedenti. Nessuna azienda ha tentato di farlo. Sono molto fiducioso che attraverso discussioni dettagliate troveremo una soluzione che affronti adeguatamente i problemi di sicurezza nazionale”.
A parole sembrerebbero tutti ben disposti, ma al momento manca l’elemento più importante: un accordo firmato da entrambe le parti, che possa risolvere una situazione che sta diventando un vero affare politico. Mercoledì, infatti, Pechino ha puntato il dito contro i rivali. L’accusa rivolta a Washington è sempre la stessa, ovvero quella di porre degli ostacoli alle proprie aziende che operano all’estero. Lo ha fatto attraverso il portavoce del ministero degli Esteri, Mao Ning. “Diffondere informazioni false e usarle come scusa per sopprimere importanti società cinesi è diventata una pratica comune negli Stati Uniti”. Se il buon esito dell’accordo dovesse giudicarsi dalle parole utilizzate dai diretti interessati, siamo ancora in alto mare.