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Mire cinesi sul porto di Trieste? Il faro del console americano Needham

Il diplomatico spiega che il Friuli Venezia Giulia, governato dal leghista Fedriga, è visto dagli Usa come “strategicamente importante”. Ci sono “grandi opportunità di investimenti”, dice. Dopo il caso Cosco-Amburgo, l’Italia è chiamata a ripensare le sue strategie e tattiche

Il porto di Trieste e “l’ampia comunità scientifica” locale “offriranno grandi opportunità di investimenti”. Robert Needham, console generale degli Stati Uniti a Milano, ne è convinto: il capoluogo e l’intera Regione, il Friuli Venezia Giulia governata dal leghista Massimiliano Fedriga, sono “pronte a decollare”.

Parole che il diplomatico ha pronunciato in visita al capoluogo giuliano per una conferenza organizzata al MIB Trieste Business school dalla American Chamber of Commerce in Italy (AmCham) guidata da Simone Crolla. Durante questo evento c’è stata la firma di un memorandum intesa tra AmCham, che nell’occasione ha ufficializzato la nomina di Antonio Moniaci come rappresentante locale, e Friulia, la finanziaria della Regione, per facilitare il flusso del traffico di affari tra i due Paesi, con gli Stati Uniti che rimangono il primo investitore estero in Italia.

“Si tratta di un territorio che vediamo come strategicamente importante”, ha spiegato il console Needham dimostrando l’attenzione della diplomazia statunitense verso le infrastrutture italiane, in particolare i porti, da tempo ormai al centro degli appetiti cinesi. Il Friuli Venezia Giulia è “la porta verso l’Europa centrale, con l’espansione del porto e con le linee ferroviarie in via di costruzione verso quell’area”, ha detto ancora. “Queste infrastrutture permetteranno al porto di riaprirsi come il punto d’accesso per l’Europa centrale dopo la guerra fredda”, ha aggiunto, rimarcando che “l’Autorità portuale ha uno sguardo proiettato verso il futuro ed è molto abile nell’espandere queste opportunità. Ci saranno moltissime opportunità di investimento in questo territorio. Penso che l’economia di Trieste trarrà grandi benefici da quanto ha da offrire il porto”.

Lo stesso diplomatico, un anno e mezzo fa, aveva rilasciato un’intervista al quotidiano ligure Il Secolo XIX spiegando che “come alleati nella Nato, con truppe presenti nelle basi italiane e con sistemi di sicurezza ed armamento condividisi, speriamo che l’Italia valuterà con attenzione i potenziali rischi per l’economia e la sicurezza nella ricerca di partner per progetti di sviluppo dei suoi porti”.

Lo scalo di Trieste era stato già al centro delle mire cinesi in occasione della firma del memorandum d’intesa tra Italia e Cina sulla Via della Seta nel marzo 2019 ma la decisione degli Stati Uniti di bandire China Communications Construction Company ha bloccato i piani di quest’ultima nello scalo giuliano. È tornato recentemente al centro dell’attenzione dopo che il governo tedesco ha consentito al colosso statale cinese Cosco, che è sia compagnia di navigazione sia operatore portuale, di acquistare una partecipazione del 24,9% in uno dei terminal portuali di Amburgo, il terzo porto europeo per volumi in transito dopo Rotterdam e Anversa e il primo della Germania. L’investimento è inferiore alla quota del 35% inizialmente prevista, a cui puntavano sia il gruppo cinese sia la società di logistica Hhla, che controlla il porto e che all’inizio dell’anno scorso ha acquisito il 50,01% della Piattaforma logistica Trieste. Così, Cosco non ha alcuna voce in capitolo nella gestione o nelle decisioni strategiche.

A febbraio il Copasir aveva ribadito l’attenzione sui porti nella relazione annuale parlando delle infrastrutture portuali italiani come degli “asset strategici a rischio”. “Sono già state oggetto di attenzione da parte di attori stranieri. Si pensi ad esempio al caso delle interlocuzioni con il governo cinese in occasione della sottoscrizione del Memorandum sulla Via della Seta, che ha registrato anche un interesse per i porti di Savona-Vado Ligure, Venezia, Trieste, Napoli, Salerno e Taranto”. L’allora presidente del Copasir, Adolfo Urso, ha recentemente, da ministro delle Imprese, spiegato che “non ci consegneremo nelle mani dei cinesi” commentando gli sviluppi di Amburgo.

Questa acquisizione “non sembra presentare ripercussioni dirette su Trieste”, aveva spiegato Francesca Ghiretti, analista del centro studi Merics di Berlino, a Formiche.net. “Ma guardando all’operazione in maniera più generale emergono alcuni interrogativi che riguardano la concorrenza. Infatti, Cosco, che riceve fondi statali dalla Cina, non compete allo stesso livello di altre imprese nel settore. Inoltre, la sua posizione dominante sul mercato è un potenziale strumento geopolitico per Pechino”. Le società cinesi controllano già circa il 10% del traffico marittimo attraverso i porti europei (con partecipazioni di maggioranza nel porto greco del Pireo e in quelli spagnoli di Valencia e Bilbao, oltre a quote negli scali di Rotterdam nei Paesi Bassi e Vado in Italia).

Ma, come dimostrano anche i bilaterali del presidente cinese Xi Jinping a margine del G20 indonesiano, Pechino ha rispolverato con l’Unione europea la strategia divide et impera. E “mentre l’Europa ha evidenziato il suo desiderio di maggiore autonomia nei settori strategici, l’Unione europea ha fatto ben poco per rispondere alla crescita della Cina nel settore marittimo e alle sue ripercussioni sulla sicurezza”, ha scritto Jonathan Holslag, professore di politica internazionale all’Université libre di Bruxelles e al Nato Defense College, in una recente pubblicazione dal titolo chiaro, “Every Ship a Warship”. Rispetto ad altri settori, come chip, energia e veicoli elettrici, “il settore marittimo è molto meno prioritario”, continua. E “più l’ecosistema marittimo europeo si sposta in Asia, più difficile sarà per l’Europa affrontare la conseguente crisi di aggiustamento. Le politiche cinesi ed europee nel settore marittimo mostrano un profondo contrasto in termini di strategia e valori politici”.

“La strategia della Cina è chiarissima”, ha dichiarato nei giorni scorsi Alessia Amighini, professoressa di politica economica presso l’Università del Piemonte Orientale e condirettrice dell’Asia Centre presso l’Ispi, a Teleborsa. “Ha bisogno di ricucire dal punto di vista commerciale, logistico e soprattutto politico con l’Europa. Hanno già dato per scontato che la relazione con gli Stati Uniti è persa e quindi non possono permettersi di avere anche il fronte europeo chiuso. Noi però in tutto questo prestiamo il fianco, basti pensare all’idea folle di chiedere alla Cina di aiutarci a mediare con la Russia. Senza un atteggiamento strategico o tattico, i cinesi saranno sempre alla porta pronti a far leva sul loro peso economico per ottenere vantaggi di posizionamento in Europa”.

Amighini ha spiegato poi che “presentare l’Italia come un nodo strategico” della Via della Seta “è sempre stata solo un’esagerazione dei media italiani”. Ci sono alternative? “L’Italia è prima nel Mediterraneo per le rotte a corto raggio (il cosiddetto Short Sea Shipping); abbiamo armatori di eccellenza in questo ambito e dobbiamo valorizzarli”, ha dichiarato Alessandro Panaro, responsabile Maritime & Energy di SRM (Centro Studi collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo), a Teleborsa. “Se riuscissimo a fare politiche incisive di reshoring, cioè far rientrare nel nostro Paese dal Far-East e dal Middle East alcune filiere industriali che hanno delocalizzato, potremmo incrementare import ed export nei porti italiani ed avere un sistema logistico meno vulnerabile poiché le rotte intraregionali consentono un maggiore controllo. In questo modo potremmo specializzarci ancor di più in questo segmento, senza ovviamente rinunciare ai porti dove serviamo le direttrici dei container di lungo raggio come ad esempio, Genova, La Spezia e Gioia Tauro”.



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