Manca all’appello, se vogliamo, un partito che tragga la sua ragion d’essere da questa piena consapevolezza di una crisi di natura ideale, prima ancora che materiale
A dispetto di previsioni sempre pessimistiche, l’Italia sta dando prova di inaspettata vitalità. A fine dicembre il Pil si assesterà a livelli che all’inizio del 2022 sembravano inarrivabili, essendo incombente nel giudizio comune la minaccia di un’ondata recessiva. La guerra e l’inflazione mettono comunque a repentaglio le speranze di una stabile ripresa dell’economia. In effetti, abbiamo di fronte mesi difficili per il protrarsi dell’instabilità nei rapporti internazionali, con inevitabili conseguenze sul piano commerciale.
In queste condizioni si è obbligati a operare con cautela, avendo più che mai premura di tenere unito il Paese. Il confronto in Parlamento è la via maestra, il ricorso alla piazza un diritto, ma con una implicita carica di radicalizzazione della lotta politica. Non è disdicevole, pertanto, la novità rappresentata dal previsto incontro tra Palazzo Chigi e una parte dell’opposizione per migliorare la legge di bilancio. Al riguardo, le critiche non sono pretestuose, visto che adombrano scarsa premura per l’avvio di operazioni di riequilibrio, forti e strutturali, centrate soprattutto sull’impegno a ridurre le diseguaglianze. Per adesso si nota al contrario un sorvolo disinvolto sui problemi con quel tanto di trascuratezza degli effetti derivanti da una prolungata pressione sui ceti medi, anche aprendo un varco al loro interno tra lavoro autonomo e lavoro dipendente.
Guardiamo avanti, cercando di rompere la gabbia di un sistema arrugginito. Ma come? Abbiamo bisogno di ricostruire pensieri lunghi, perché l’Italia, l’Europa e l’Occidente hanno di fronte una sfida gigantesca: cambiare modello di sviluppo. Era questa, mezzo secolo fa, la formula che annunciava la tendenziale fuoriuscita dal capitalismo; formula che invece, in questa nuova stagione, rappresenta l’ultima “rivoluzione del capitalismo”. Non contro, ma in virtù del capitalismo in perpetua evoluzione. Dal che si evince come la politica non può restare assente. Ed ecco perché serve un pensiero politico – e lo chiamiamo “lungo” per il suo dispiegarsi nell’avvenire di trasformazioni a medio e lungo raggio – con il quale ridisegnare l’identità dei partiti, la loro rappresentanza sociale, il sistema di alleanze da essi concepito e praticato.
Ora, a forza di evocare l’abbandono delle ideologie, residua soltanto una concitata politica del fare. Da qui l’inaridimento della democrazia, da qui l’esplodere dell’astensionismo, come abbiamo visto nelle elezioni del 25 settembre: in sostanza ci appare per intero la sproporzione tra la potenza dei cambiamenti in atto e gli strumenti adoperati dalla politica per la loro intelligenza e direzione. Manca all’appello, se vogliamo, un partito che tragga la sua ragion d’essere da questa piena consapevolezza di una crisi di natura ideale, prima ancora che materiale. Dobbiamo capire dove va il mondo e apprestarci a ridefinire la nostra visione delle cose, fissando una scala di principi e di valori.
Non credo che la geografia politica italiana possa rimanere immobile per molto tempo ancora. Una società vitale, non prigioniera delle profezie di sventura, reclama una forza di progetto. Fuori dai vecchi schemi.