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Il ruolo dell’Agcom nella direttiva Copyright. Parla Scialdone

L’iter di adozione da parte dell’Italia è prossimo alla chiusura ma, per il professore di Diritto e Gestione dei contenuti e servizi digitali all’Università Europea di Roma, i problemi rimangono e interessano soprattutto la centralità dell’Autorità pubblica. Nel recepimento il diritto di esclusiva si è trasformato in equo compenso, togliendo di fatto il potere contrattuale all’editore

Il processo di adozione della direttiva europea sul copyright può dirsi quasi completato, anche nel nostro Paese. Manca un ultimo tassello, l’attuazione di una singola disposizione che fa riferimento all’art.15, inerente al diritto esclusivo riconosciuto agli editori sulle pubblicazioni giornalistiche. Non che sia un passo da niente, anzi secondo l’avvocato Marco Scialdone, docente di Diritto e Gestione dei contenuti e servizi digitali all’Università Europea di Roma, i dubbi che aveva già espresso a Formiche.net non sono ancora svaniti. La direttiva, che molti Paesi membri hanno già fatto propria iniziando a favorire la stipula di contratti tra piattaforme ed editori, doveva servire a trovare un punto di raccordo tra vecchio e nuovo mondo dell’informazione. In Italia, spiega il professore, il recepimento pare non perfettamente in linea con lo spirito e la lettera della direttiva. E tutto ruota attorno al ruolo centrale che il decreto italiano assegna all’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) in questa complessa partita.

Professore, cosa continua a non convincerla?

Il diritto esclusivo previsto dalla direttiva è stato trasformato in una sorta di un diritto al compenso, andando a snaturarlo rispetto a come era stato pensato. Il caso italiano rappresenta un unicum nel panorama europeo. È anche vero che il ritardo accumulato da Agcom è frutto delle difficoltà nel dare attuazione a un testo pensato male dal legislatore. Questo regolamento potrà diventare il casus belli da portare dinanzi al Tar e, da lì, fino in Corte di Giustizia per valutare la compatibilità della normativa nazionale con quella comunitaria.

La fase consultiva terminava ad agosto. Sono passati altri quattro mesi, e siamo in attesa di un regolamento. Qual è il motivo di questa attesa?

L’Autorità si è trovata una patata bollente da gestire, ben sapendo che su questo regolamento si fonderanno i prossimi ricorsi. La cautela di questi mesi è, pertanto, assolutamente giustificabile. La spiegazione è dovuta a un aspetto che considero centrale, che interessa il tipo di formula matematica da applicare per determinare il c.d. value gap (i creatori di contenuti online sostengono che i ricavi generati dalla distribuzione di questi contenuti sono ripartiti in modo squilibrato, e vorrebbero “coprire” questo dislivello, ndr)

Cosa è stato attuato?

C’è una distonia tra il testo della delibera e quello del regolamento: mentre nella delibera correttamente l’Autorità afferma di aver individuato “i benefici economici derivanti ad entrambe le parti quali criteri che possono rappresentare in maniera sintetica una misura del value gap. Questi, dunque, concorrono a determinare la base di calcolo su cui applicare l’aliquota per la quantificazione dell’equo compenso dovuto agli editori”, nell’articolo 4 del regolamento sono unicamente i ricavi pubblicitari del prestatore ad essere considerati nella base di calcolo.

E invece quale sarebbe stata la strada giusta da seguire?

A mio avviso la formula corretta dovrebbe essere: “ricavi pubblicitari del prestatore (meno) ricavi generati dal traffico di reindirizzamento”. Il risultato di questa sottrazione dovrebbe andare a costituire il value gap. C’è da dire che nell’incertezza che nel frattempo si è generata, a rimetterci è stato l’utente: alcune piattaforme in altri Paesi hanno iniziato a mostrare unicamente link di testo senza alcuna preview. Sarebbe anche interessante andare a vedere se e quanto tale scelta abbia influito sui click abbassando i ricavi.

La centralità dell’Agcom, e quindi le decisioni che prenderà sul regolamento, che effetti potrebbe produrre?

Alcune piattaforme potrebbero decidere che alcuni contenuti giornalistici non sono più interessanti, perché se il prezzo lo decide (o lo influenza fortemente) un’autorità pubblica il gioco potrebbe non valere la candela. È il mercato che deve decidere il prezzo. L’impostazione di un diritto di esclusiva per gli editori nei confronti di queste piattaforme, per un periodo determinato, serviva a dare loro un potere contrattuale da spendere. Tu editore puoi far valere le tue ragioni, dopodiché è il mercato a decidere. La direttiva d’altronde nasceva proprio per cercare un punto di unione tra editori e piattaforme tech.

Nel nostro Paese è invece avvenuto il contrario.

In Italia, come detto, hanno trasformato un diritto di esclusiva in un equo compenso, dando all’Autorità pubblica un ruolo centrale quando sarebbe dovuta rimanere una dinamica non pubblica. È chiaro che, direttamente o indirettamente, quando un’autorità pubblica determina la formula e l’aliquota da applicare, quello diventa in ogni caso il benchmark di mercato.



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