La tradizione non è una gabbia di acciaio, ma una molla che spinge in avanti, che permette di mantenere uno spessore oltre le apparenze e le mode del momento, che mantiene nell’eredità eterna della Rivelazione divina una forza soprannaturale presente al cospetto della fragilità temporale. La riflessione di Benedetto Ippolito, professore di Storia della Filosofia Medievale all’Università Roma Tre
Vi sono personaggi che nella storia sono importanti; vi sono personaggi che invece hanno addirittura un’importanza storica: ma vi sono anche personaggi che segnano la storia definitivamente.
Stamani, nelle prime ore del mattino, è giunta la notizia della morte di Benedetto XVI, Papa emerito della Chiesa Cattolica. Senza dubbio egli è stato colui che per primo nell’epoca moderna ha rinunciato al Soglio di Pietro, ponendo questa drammatica scelta nella credibile altezza della propria personalità e del senso essenziale che ha la sovranità spirituale del Pontefice.
La sua biografia è stata segnata dall’origine tedesca, dal ruolo assunto da giovane al Concilio Vaticano II, poi come vescovo prima e prefetto poi della Congregazione per la dottrina della Fede con Giovanni Paolo II. A Joaquin Navarro-Valls, indimenticabile portavoce di Woytila, quando gli si chiedeva come spiegare il binomio invincibile tra i due, egli rispondeva che Ratzinger era un teologo mentre Giovanni Paolo II un filosofo: la loro sintonia chiariva in modo umanamente denso l’incontro permanente tra fede e ragione, tipico della migliore tradizione cattolica. Le due figure sono inseparabili, tuttavia, nell’illustrare specialmente il profilo intellettuale, culturale, umano e politico del Papa tedesco.
Il Magistero di Benedetto, dal 2005 al 2013, è stato contrassegnato da un’idea molto precisa e fondamentale: dare alla Chiesa Cattolica contemporanea, plasmata dal primo Papa santo e polacco, una struttura dottrinale solida, concreta, ferma, integerrima. Egli lo ha fatto con uno stile aulico, ierocratico ma umanamente semplice, generoso, affabile; lo ha inciso nei suoi documenti dottrinali, a cominciare dalle Lettere Encicliche; lo ha comprovato nelle sue meravigliose lezioni pedagogiche e formative di storia della Chiesa, durante le meditate Udienze Generali.
Benedetto XVI è stato più di un Papa: è stato il simbolo stesso, incarnato, della integralità della fede, della religione fatta cultura, del prestigio di essere cattolici ed intellettuali moderni, impresa a cui ha dedicato tutta la vita. Il concetto cardine della sua riflessione è la Verità: divina, umana, soprannaturale, naturale, universale.
Non può esservi fede, infatti, senza Verità rivelata; non può esservi politica senza verità umana e naturale; non può esservi carità senza vera giustizia; non può esservi metafisica senza conoscenza vera della realtà scientifica.
Fedeltà all’insegnamento patristico di sant’Agostino, ma anche consapevolezza che non può esistere cattolicità senza l’eredità integrale ed immutabile della Scolastica medievale: senza Tommaso d’Aquino, senza Bonaventura da Bagnoregio, senza gli Ordini religiosi che ne hanno permesso la sopravvivenza e la valenza dottrinale nella complessa epoca moderna, la cattolicità semplicemente non sarebbe. La tradizione non è una gabbia di acciaio, ma una molla che spinge in avanti, che permette di mantenere uno spessore oltre le apparenze e le mode del momento, che mantiene nell’eredità eterna della Rivelazione divina una forza soprannaturale presente al cospetto della fragilità temporale.
Fede e ragione si affermano insieme, e, proprio perciò, tanto spesso si smarriscono insieme.
I suoi libri sono testimonianze alte e piene di ciò che oggi manca di più, anche nel seno della stessa Cristianità: un sano modo fermo di essere cattolico e intellettuale, fondato sul mistero dell’Incarnazione, sull’unione tra Dio e l’Uomo, ma massimamente sulla Passione e Resurrezione di Cristo, nella cui identificazione personale, naturale e ultraterrena, la santità del battezzato unicamente può affermarsi e compiersi attivamente per il bene di tutti.
Il bene è gioia che purifica e prefigura la Beatitudine eterna già in questa vita, non senza il crogiolo del martirio cruento ed incruento, della lotta spirituale nella difesa di verità teologiche e filosofiche scomode, disdegnate, rifiutate nel processo attuale di secolarizzazione.
La grandezza di Benedetto XVI sta proprio nel suo possesso articolato, dotto e profondo della cultura necessaria per essere un cattolico libero di esprimere una visione cristiana integrale e universale, senza infingimenti e senza flessioni. Solo così, d’altronde, si può capire la sua rinuncia del 2013, fatta per affermare la sovrana eternità della Chiesa come istituzione: attestazione che richiede talvolta, come nel suo caso, il sacrificio completo di sé, l’immolazione della propria persona.
L’eredità di Ratzinger è però la sua teologia, inseparabile come razionalità dal credere stesso, come ben detto nel famoso Discorso di Ratisbona del 2006. La sua forza profetica è stata anticipare la questione della crisi valoriale che domani dovrà essere inevitabilmente affrontata e ripresa in Occidente, cominciando dalla nostra Europa decadente e desacralizzata.
L’eredità del Vecchio Continente riposa nella sua identità vera, spirituale, frutto del connubio tutto mediterraneo tra Atene, Gerusalemme e Roma, ossia tra filosofia classica, tradizione ebraica e centralità romana, eredità che non va modificata ma mantenuta, riscoperta, amata e vissuta con orgoglio ed espansa in senso universale e assoluto. Di quella stratificazione sapienziale, nella cui anima si cela il vero senso del nostro avvenire, Benedetto XVI costituisce la miniera inesauribile da cui ricavare idee, saggezza e lungimiranza futura.
Oggi è il momento del dolore, quella sofferenza descritta nelle splendide pagine dedicate al mistero della Croce, ma anche analizzate in modo diffuso nella sua trattazione da lui più alta e amata, tra le innumerevoli dedicate ad argomenti teologici, vale a dire quella sull’escatologia, i novissimi e la vita eterna.
Platone diceva che la filosofia forse altro non è che esercizio di morte. Ebbene, Benedetto XVI ha spiegato che la verità ultima del Cristianesimo è donare un senso alla morte, un significato di vita, di speranza, di realtà e di compimento definitivo alla vita umana, al dolore, alla fragilità, all’esistenza personale, apparentemente così contingente e insensata di ognuno di noi.
Solo dall’integrità dello spirito può nascere l’ordine della materia. E Benedetto XVI ha espresso l’ortodossia e l’integralità di questa verità cattolica, sempre valida, non perché è di ieri o di domani, di me o di te, ma perché è di sempre, di tutti, di Dio.