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La Cina cresce come potenza e diventa bersaglio dei terroristi

Gli attentati in Afghanistan e Pakistan ricordano alla Cina che essere una potenza globale è impegnativo, si rischia di finire vittima della propaganda con cui i gruppi combattenti come (l’IS-K) vogliono creare proselitismo e di dinamiche interne ai Paesi dove si cerca di fare business. Pechino è pronta a tutto questo (e intende farsi carico degli impegni conseguenti)?

Pochi giorni fa un attentato ha colpito quello che comunemente viene chiamato il “Chinese Hotel” di Kabul, un edificio frequentato da diversi lavoratori cinesi che si trovano in Afghanistan. L’attacco contro il Longan Hotel della capitale afghana è stato complesso, dunque organizzato. L’obiettivo – i cinesi che erano all’interno – non casuale, ma programmato. La pubblicazione Al Azaim, in cui la filiale locale dello Stato islamico (nota come IS nel Khorasan, IS-K) diffonde la sua propaganda, ha usato l’evento per spingere la sua narrazione contro la presenza di stranieri nel Paese.

Quegli “stranieri” erano cinesi. In Afghanistan, la Cina subisce il peso dell’essere ormai una potenza proiettata all’esterno. I gruppi combattenti come l’IS la identificano come una presenza imperiale, sfruttatrice, contro cui combattere le guerre di sovranità, indipendenza e liberazione attorno a cui ruota il reclutamento per il jihad.

Talai’ ul Ansar, Sarh ul Khilafa e Al Murhafat, altri tre media minori che spingono la propaganda jihadista nel Khorasan hanno continuato a raccontare l’attentato di Kabul come un successo e un messaggio a Pechino. Che non è unico, e per questo diventa ancora più preoccupante per il Partito comunista cinese se si considera che qualcosa di simile è avvenuto in Pakistan, dove nell’arco degli ultimi due anni ci sono stati diversi attacchi contro i cinesi da parte di gruppi armati locali.

Un problema è pratico e si collega ai piani cinesi di espansione in quella regione. Nell’ottobre di quest’anno, Islamabad ha ospitato l’11esima riunione del Comitato congiunto di cooperazione Cina-Pakistan (Jcc) per discutere i progressi dei progetti nell’ambito del Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec). I nuovi progetti, i progressi di quelli esistenti e l’espansione del Cpec sono stati i principali punti all’ordine del giorno dell’incontro: c’è un’idea di includere l’Afghanistan nelle dinamiche del corridoio. A questo si legano le volontà cinesi di avviare un dialogo con i Talebani. Dal punto di vista geostrategico, includere l’Afghanistan avrebbe solo che vantaggi per la Cina (che considera il Cpec la via d’accesso all’Oceano Indiano della Belt & Road Initiative, uno di quegli sbocchi in cui le strade e le cinture marittime si intersecano).

Ma la situazione è piuttosto complessa, e le questioni securitarie non sono secondarie. L’IS-K considera i Talebani nemici, compie attentati per dimostrare che il Paese non è amministrato a dovere, colpisce i cinesi fomentando una reazione tra i fanatici, portandoli a pensare che il governo talebano abbia accettato di vendersi a Pechino e calcando su narrazioni estremiste, condizioni sociali ed economiche pessimi, facilità di attecchimento di visioni religiose radicali.

Secondo un analista economico che preferisce restare riservato c’è anche un altro scenario. L’attacco con cui uomini armati hanno aperto il fuoco all’Hotel Longan sembra essere parte di una tendenza di azioni pensate per spaventare gli investitori o i partner stranieri interessati a lavorare con il governo afghano guidato dai Talebani: “Tra questi, i cinesi stanno diventando uno degli obiettivi di maggiore interesse, anche per ciò che avviene nello Xinjiang”.

Lo Xinjiang è quella regione della Cina (nel nord-ovest) in cui il Partito/Stato ha avviato una campagna di rieducazione contro i musulmani autoctoni. L’idea di Pechino è che rieducandoli in campi di detenzione — in cui vengono sottoposti a un mix di lavaggi del cervello e lavori forzati denunciato anche da un report Onu — possano uscire come “bravi cinesi”, e disintossicati da potenziali tendenze estremiste. Nello Xinjiang in passato ci sono state organizzazioni ribelli e alcuni musulmani locali hanno scelto il jihad califfale unendosi ai baghdadisti negli anni d’oro dello Stato islamico.

L’obiettivo dell’IS-K è duplice: da una parte colpisce la Cina, considerata una potenza nemica e takfiri da attaccare proprio come lo sono da tempo gli Stati Uniti o i Paesi occidentali. E mentre Pechino paga il prezzo del proprio successo, i baghdadisti riescono ad arrecare danni ai Talebani. Il rientro anticipato di vari businessman cinesi in vista del Capodanno lunare è molto collegato all’assalto al Longan, e chissà se quei businessman di medio livello arrivati (inviati?) dalla Cina ritorneranno in Afghanistan. Il governo cinese ha già diffuso note sui rischi. L’attentato all’hotel è arrivato meno di due settimane dopo un attacco all’ambasciata del Pakistan a Kabul. A settembre, un attentatore suicida ha colpito la missione della Russia, portando Mosca a chiedere un rallentamento quasi totale della presenza dei russi nel Paese — diventati anch’essi un target.

Tutti rivendicati dall’IS-K. E il governo talebano si ritrova con meno investitori esteri, fatica a finanziare le sue iniziative, i cittadini soffrono, l’IS diventa sempre più attraente tra caos e scontento. “L’idea è quella di allontanare i potenziali partner, i pochi su cui i Talebani possono contare, dai Talebani”, ha spiegato Michael Kugelman, direttore dell’Istituto per l’Asia Meridionale presso il Wilson Center di Washington.

Secondo dati forniti da fonti cinesi, circa 500 uomini d’affari cinesi sono entrati in Afghanistan da quando i Talebani hanno preso il potere (nell’agosto 2021) per studiare le opportunità commerciali, anche se pochi si sono ancora impegnati a investire. Senza sicurezza non c’è spazio per investimenti, e Pechino per il momento non sembra interessata a compiere sforzi di qualche genere per impegnarsi maggiormente a garantire più sicurezza in Afghanistan, oppure a farsi coinvolgere in campagne anti-terrorismo (come d’altronde ha sempre fatto).

Eppure interessi ci sono, anche oltre a quelli geopolitici della Bri, altri di valore commerciale strategico. Per esempio, la China Metallurgical Group Corporation (MCC), di proprietà statale, è in trattativa con l’amministrazione talebana per un accordo da 3 miliardi di dollari per la gestione di una miniera di rame nella provincia orientale di Logar. Un contratto per il progetto è stato firmato nel 2007 sotto il precedente governo sostenuto dalla Comunità internazionale, ma poi ha subito lunghi ritardi. I Talebani sono intenzionati a portare avanti le trattative, Pechino vuole il rame (materiale strategico per l’electro state cinese).

“Sì, ci sono alcuni gruppi che vogliono e cercano di distruggere le relazioni dell’Emirato islamico con altri Paesi, ma noi non permetteremo che ciò accada”, ha dichiarato Bilal Karimi, vice portavoce dell’amministrazione guidata dai Talebani. “Abbiamo buoni rapporti con MCC e altre aziende cinesi, e le invitiamo a continuare le loro attività nel nostro Paese”. Tuttavia, i Talebani non hanno la forza per proteggere l’Afghanistan. La Russia è presa da altre battaglia. Le forze occidentali — che finora hanno cercato di lavorare per la sicurezza — sono ora fuori dal Paese (e probabilmente non hanno intenzione di essere coinvolte in certe attività). La Cina non intende impegnarsi in attività complesse anche di carattere militare, ma Pechino dovrà sobbarcarsi l’onere di essere una potenza globale (ammesso voglia davvero esserlo).


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