L’analisi del centro di ricerca con sede a New York non lascia dubbi: in uno scenario conservativo, l’impatto sull’economia regionale e globale sarebbe comunque devastante. Soprattutto per l’industria dei semiconduttori e dei settori a valle. Basterà lo “scudo di silicio” come deterrente per evitare un’escalation?
Quante sono le probabilità di un conflitto militare su Taiwan? Cosa cambierà il calcolo di rischi-benefici per la Repubblica Popolare Cinese nell’intraprendere un’iniziativa, in qualunque forma? Sono domande che alimentano i pensieri dei principali governi direttamente o indirettamente coinvolti e che stimolano analisi dibattute tra gli addetti ai lavori.
Quello che certamente sappiamo, al di là delle cause, sono le conseguenze che un tale scenario potrebbe provocare con ripercussioni a catena sulle supply chain globali, sulla stabilità dei sistemi finanziari e in generale sull’economia mondiale, già sconvolta da due anni di pandemia e ostaggio del conflitto russo-ucraino.
Si tratta di due quadranti con incastri geopolitici molto differenti, con da una parte attori revisionisti – Russia e Cina – che cercano di ribaltare gli equilibri globali a loro favore, rischiando la prima un conflitto ‘aperto’ mentre la seconda rimane in attesa di una finestra d’opportunità, consapevole dei rischi; dall’altra un blocco di democrazie, quelle euro-atlantiche, che ribadiscono all’unisono il sostegno all’Ucraina, mentre un blocco di alleati democratici, nell’Asia Pacifico, fortemente integrati nell’economia regionale a trazione cinese ma politicamente nella sfera di sicurezza americana riconoscono ormai da decenni l’assertività della Cina. In mezzo, Taiwan, l’isola “sospesa” nel baratro di un conflitto devastante e che conta sulla sua centralità nelle filiere tecnologiche mondiali per garantirsi la sua sicurezza e integrità politica.
Non che l’Ucraina sia un paese meno importante in assoluto. Granaio mondiale, territorio ricco di risorse minerarie e paese transito dei principali gasdotti euroasiatici. Risorse cruciali e potenziali per gli equilibri economici presenti e futuri. Ma è evidente che il calcolo – o l’errore di valutazione – strategico di Vladimir Putin fosse sull’importanza della stabilità del paese come garanzia di sicurezza latu sensu dell’Europa, il vero obiettivo.
Se la guerra in Ucraina ha dunque sferzato un duro colpo alla sicurezza energetica europea e cambiato (forse in una direzione auspicata) gli equilibri energetici, un conflitto su Taiwan non potrebbe che scuotere le fondamenta dell’economia digitale e delle industrie high-tech, con riverberi inevitabili sul sistema finanziario globale. Ed è qui che il destino politico di Taiwan è legato a doppio filo con le ambizioni tecnologiche della Cina. Che non guarda all’isola come ad una resa dei conti con il mondo occidentale, ma prima di tutto per la sua ragion d’essere nel XXI secolo.
Secondo le stime preliminari del Rhodium Group, nello scenario “conservativo e parziale” di un “blocco” totale dell’isola dai flussi commerciali mondiali l’impatto sarebbe dell’ordine di due trilioni di dollari, senza contare “risposte internazionali [come le sanzioni, n.d.] e gli effetti secondari”.
Taiwan è un epicentro del commercio globale. È la 16esima economia, con servizi e prodotti importati ed esportati per un valore di 922 miliardi di dollari nel 2021, di cui 565 sarebbero a rischio di essere bloccati sull’isola nello scenario preventivato. Si tratta soprattutto di commercio di servizi e beni ICT.
Tuttavia, è evidente che la prima industria a risentirne sarebbe quella dei semiconduttori. Sull’isola, TSMC, Global Wafers e molte altre producono la maggior parte dei chip avanzati (sotto i 10 nm) a livello globale (circa il 92%) e non ultimo un terzo dei chip più maturi. Secondo le stime raccolte dagli analisti del Rhodium Group, a Taiwan vengono prodotti il 35% dei microcontrollori per il settore automotive e il 70% dei microprocessori per gli smartphone. Senza contare altri prodotti high-tech.
Un blocco della produzione dell’isola come conseguenza di un’offensiva cinese costerebbe a queste industrie downstream perdite annuali dell’ordine di 1.6 trilioni di dollari, con ricadute su tutte le filiere interconnesse. La carenza di chip del biennio 2020-2021 – che, ricordiamo, è stata una crisi di “domanda”, considerando che il volume di produzione di chip è cresciuto del 13% rispetto al 2020 – che ha messo sotto stress il modello di business dell’automotive sarebbe nulla in confronto.
L’impatto si riverserebbe anche indirettamente sul commercio tra la Cina e il resto del mondo, con una seria contrazione dei flussi di garanzia bancari per tutelarsi da eventuali e probabili sanzioni da Stati Uniti, Unione Europea e paesi asiatici, con effetti su quasi 270 miliardi di beni e servizi scambiati a livello globale. La carenza di semiconduttori, inoltre, colpirebbe direttamente le industrie cinesi, già più dipendenti dai semiconduttori che dal petrolio, senza contare la fuga dei capitali dalla Cina per il rischio di esposizione alle sanzioni e agli effetti macroeconomici del conflitto. Anche le multinazionali non sarebbero esentate, costrette a rivedere i propri piani di investimento e produzione in un paese nell’occhio del ciclone e sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale.
Quello che succede a Taiwan, infine, non potrà rimanere a Taiwan. In conseguenza degli effetti a cascata precedenti, ne risentirebbe la domanda interna della Cina, esponendo i paesi esportatori di semilavorati industriali e ad alta intensità tecnologica – come Stati Uniti, Germania, Giappone e anche Italia – di fronte a problemi ben più gravi di quelli già sperimentati con la pandemia e la carenza di microchip. Ma anche i paesi in via di sviluppo, grandi esportatori di materie prime: “considerando la composizione delle importazioni della Cina”, scrivono gli analisti, “questi esportatori soffrirebbero significativamente di una minor domanda” mettendo così una forte “pressione sulle loro monete e bilance commerciali”. In sostanza: stress finanziari e crisi del debito a domino tra Africa e Sud America.
Paesi su cui la Cina ha costruito il suo dominio delle filiere delle materie prime critiche, essenziali per la decarbonizzazione di trasporti ed energia. Non emerge una riflessione in merito, ma è evidente che un crollo della domanda cinese avrebbe un possibile duplice effetto: rallentare produzione e dispiegamento di tecnologie rinnovabili (batterie elettriche, turbine, pannelli fotovoltaici), oltre a scatenare una depressione dei prezzi, mettendo in forte difficoltà finanziaria le attività minerarie e di trasformazione fuori dalla Cina. Oltre a possibili ritorsioni, come accaduto nel 2010 con la crisi tra Tokyo e Pechino sulle isole contese Senkaku, tramite restrizioni all’export di terre rare e materiali critici.
Prepararsi, dunque, a questo susseguirsi di conseguenze di fronte allo scenario – ancorché conservativo – illustrato da questa analisi dovrebbe rappresentare una necessità per la sicurezza globale. Ma per la filiera dei chip ogni mossa – come la corsa a riportare in patria le foundry e i fornitori di materiali ed equipaggiamento – potrebbe non bastare. “La centralità di Taiwan nell’ecosistema di fabbricazione dei semiconduttori significa che ci sarebbero poche alternative nel breve termine, e così le conseguenze di un blocco condurrebbero a costi inevitabili per l’economia globale”.
È una corsa contro il tempo? Secondo un recente sondaggio tra esperti e analisti militari, il 63% ritiene che un’invasione – ovvero il worst case scenario rispetto a quanto immaginato dal Rhodium Group – sia possibile entro i prossimi dieci anni. Resta comunque l’impressione che, nel breve termine, non ci siano margini per Pechino. Nel calcolo è possibile che rientrerà la capacità della Cina di accedere ai semiconduttori più all’avanguardia, considerando che la stretta sulle esportazioni di software e macchinari prodotti con know-how americano ai chipmakers cinesi si fa sempre più forte, spingendo la Repubblica Popolare Cinese ad appellarsi al WTO per una violazione delle regole commerciali.
Secondo Bloomberg, l’amministrazione Biden starebbe per includere Yangtze Memory Technologies – principale produttore cinese di chip di memoria – e altre trenta aziende cinesi nella Entity List che ne proibirà l’accesso alle tecnologie statunitensi. Una mossa che ha già strangolato Huawei e SMIC, altro produttore cinese di semiconduttori ma generazioni indietro rispetto a Intel, TSMC e Samsung.
L’impulso americano per il reshoring delle attività produttive di chip all’avanguardia e al contempo lo strangolamento delle capacità della Cina di raggiungere la “sovranità tecnologica” sono problematiche dal punto di vista di Taipei, le cui aspettative sulla copertura militare americana sono legate a stretto filo alla sua essenzialità nella supply chain globale dell’industria dei semiconduttori.