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Caro Conte, la politica estera non è un “menu à la carte”. Scrive Borghi (Pd)

Il punto non è tanto il leader 5S che ad Avvenire si è immaginato come novella edizione contemporanea di Mario Capanna. È il Pd. L’intervento su Facebook del senatore Enrico Borghi, membro della segreteria nazionale e responsabile politiche per la sicurezza del Partito democratico

Intervistato (…) da Avvenire, il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, ha affrontato tra le altre questioni il tema del sostegno all’Ucraina. Ponendo al centro tre questioni-chiave, nella sua riflessione. La prima: bisogna fermare l’invio delle armi (detto con il suo linguaggio “noi non autorizzeremo nuovi invii di armi”, perché poi nella vita c’è sempre chi si prende la briga di sporcarsi le mani con il fango della Storia per consentire ad altri di fare le anime belle dopo che hanno aumentato del 17% le spese militari quando erano alla guida di due governi…). La seconda: ogni invio di armi favorisce l’escalation militare. La pensano diversamente praticamente tutti i partner politici e militari dell’Italia, e le valutazioni sul campo ci dicono che un arresto nel sostegno alla difesa ucraina farebbe pendere l’ago della bilancia del conflitto a favore di Mosca. La terza: nessun riferimento, nella lunga intervista, viene fatto alle responsabilità di Mosca. C’è la consueta tirata anti-atlantica, fatta bollando di “totale acquiescenza nei confronti di Washington” e di “accettazione supina della strada dell’invio delle armi” chi non la pensa come lui. Una-parola-una di rilievo critico a [Vladimir] Putin, niente.

Si potrebbe continuare, nel chiosare la prosa e la sostanza di Conte che nel suo consueto camaleontico e cangiante evolversi sembra oggi distante dal quel Conte che sulla spiaggia di Biarritz si guadagnava le lodi sperticate di Donald Trump (e chissà se quel Giuseppe Conte avrebbe mai parlato all’epoca di “totale acquiescenza nei confronti di Washington”…). Lasciamo pure a Conte di immaginarsi come novella edizione contemporanea di Mario Capanna, per quanto improbabile.

Il punto, politico, è un altro. La politica estera (che è più corretto declinare come politica estera e di sicurezza) non è un “menu à la carte”, ma il fondamento su cui si reggono le relazioni esterne ed interne ad un Paese. Quelle esterne, perché il rapporto di amicizia e di alleanza tra Stati non si può affidare alla mutevolezza, al capriccio o al tatticismo del momento, ma deve essere ancorato profondamente su valori di fondo in grado di reggere alle temperie del momento. Quelle interne, perché una coalizione di governo – qualunque essa sia, e da qualunque leadership sia condotta – non può non trovare una convergenza, un idem sentire, una coesione strutturale sul tema della politica estera. [Alcide] De Gasperi seppe tenere insieme cattolici baciapile, marxisti, massoni e anticlericali esattamente sulla convergenza di fondo in materia di politica estera, ponendo il tema dell’atlantismo, dell’europeismo e del multilateralismo come il fondamento di un’azione di governo destinata poi a segnare come una costante la storia della Repubblica sin qui.

Se Conte pensa di passare, dentro una logica intercambiabile, dall’essere alfiere della Via della Seta in Italia assecondando le strategie di Xi Jinping a epigono acritico del trumpismo in terra italica fino alla attuale posizione, è ovviamente libero di farlo. Quello che mi chiedo, però, è come sia possibile che tutto questo passi in cavalleria nel mio partito.

Perché la “politica estera e di sicurezza” non è un orpello della Storia, ma l’elemento centrale sul quale si possono definire convergenze o dissonanze. Quando guidò il governo giallorosso, il camaleontismo contiano assunse i connotati di un atlantismo di maniera e di un europeismo di convenienza, costretto a metà strada dalle contingenze e dal dover fare i conti con la nitida posizione del Partito democratico. Ora che punta con decisione ad assumere la leadership del campo alternativo alla destra, Conte sceglie di ritagliarsi addosso una postura come quella descritta nell’intervista (…) ad Avvenire.

Ma il punto, lo ripeto, non è tanto Conte. Ma è il Pd. E cioè: come si può pensare di correre appresso ad una leadership siffatta, elevarla al rango della indispensabilità quando non della infallibilità, senza affrontarne i nodi di fondo che – dentro una eventuale ripresa di una alleanza politica – riemergerebbero a galla con tutta la loro ambiguità? Non illudiamoci che i problemi si risolveranno semplicemente non evocandoli. Perché – al contrario – torneranno ad imporsi con maggiore complessità. E i nodi non sciolti hanno solo un modo per essere risolti.

Inutile girarci attorno. Finché avremo una destra coesa sul piano internazionale e sui temi della politica estera, cui fa da contraltare una opposizione nella quale albergano le posizioni che qui ho ricordato, continueremo a consegnare a Giorgia Meloni la polizza-vita. E i nodi, in politica, non si sciolgono né con la rincorsa alle posizioni altrui, né con il rinvio permanente ed effettivo. Si sciolgono con la chiarezza delle posizioni. Se c’è una cosa su cui tutti gli osservatori concordano, anche quelli più ferocemente schierati contro di noi, è la linearità e la coerenza che il Partito Democratico ha avuto in questi anni sui temi della politica estera e di sicurezza, in difesa della democrazia, dei diritti civili, della convivenza pacifica e della difesa del fondamento del diritto internazionale messo in discussione da Putin il 24 febbraio.

Se teniamo il punto su questo, e ripartiamo da qui, tante sirene si riveleranno per la loro reale natura e potremo tornare ad essere quel punto di riferimento essenziale che siamo sempre stati nella nostra storia di democratici.

(Intervento pubblicato su Facebook in data 27 dicembre 2022)



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