Intervista a Marcello Cattani, presidente degli industriali farmaceutici. Basterebbe spostare parte dell’avanzo della spesa convenzionata sul deficit generato da quella diretta e in tre anni il problema sarebbe risolto. L’inflazione sta picchiando duro, è arrivato il momento di mettere in sicurezza e valorizzare la produzione e la ricerca made in Italy. La riforma dell’Aifa? Servono più lavoratori per adeguare l’Agenzia alla sua mission
Mai come in questo 2022 il payback, ovvero il meccanismo che che impone all’industria farmaceutica di concorrere nella misura del 50% al ripiano della spesa per l’acquisto diretto di farmaci da parte del Sistema sanitario nazionale, rischia di essere indigesto a un settore che garantisce un valore della produzione di oltre 30 miliardi di euro all’anno.
Sì, perché l’inflazione che in Italia è ai massimi da quattro decenni, si sta mangiando i margini delle aziende e allora ci si chiede perché continuare a mettere una pezza sul disavanzo che le Regioni creano alla fine di ogni anno nell’ambito della spesa diretta per farmaci e dispositivi. Tra chi se lo chiede, e non certo da ieri, c’è Marcello Cattani, che da luglio guida Farmindustria, dopo il passaggio di testimone con Massimo Scaccabarozzi. Manager della Sanofi Italia, Cattani sa bene che non è il momento di tirare troppo la corda. Perché, in tempi di guerra e rincari, due miliardi di payback possono fare la differenza.
Presidente Cattani, quest’anno il payback rischia di fare male alle imprese del farmaco. Non è forse arrivato il momento di intervenire?
A dire il vero sono tanti anni che il nostro settore deve gestire questa attuale governance farmaceutica, che però oggi è diventata insostenibile. Il payback è un meccanismo iniquo, perché nei fatti è una tassa reale e aggiuntiva sulle nostre aziende, accessoria rispetto ad altri comparti della manifattura. E poi la gestione della spesa non è più adeguata al fabbisogno dei cittadini, questo è un altro punto. La prova è che ogni anno c’è uno sfondamento del tetto che non corrisponde al fabbisogno reale dei cittadini. Per questo il meccanismo in essere, oltre che iniquo, è superato.
E allora cosa inventarsi per superare questo stallo, così lesivo dell’attività farmaceutica italiana?
Faccio notare che la spesa convenzionata ogni anno garantisce un avanzo di circa 800 milioni di euro. Bene, questi fondi potrebbero essere usati per compensare il disavanzo della spesa diretta per i farmaci. Il meccanismo attuale non consente questa compensazione ed è francamente incomprensibile.
Mi faccia fare due conti. Se io sposto risorse da una voce all’altra non dovrei metterci soldi in più, corretto?
Corretto, sono anni che noi indichiamo questa strada, che è la via maestra per superare l’attuale assetto. Con una progressività nell’arco di tre anni, l’obiettivo si può raggiungere. Ma vede, l’Italia prima di tutto deve risolvere un nodo.
Sarebbe?
Deve ricominciare a credere nella salute e a credere nel finanziamento del Fondo sanitario. E dare risorse, perché il nostro destino è quello di tornare a una spesa che vale il 6,1% del Pil, è un rapporto non degno dell’ottava economia mondiali. Un dato ben al di sotto di quel 10% che invece incontriamo in Spagna e Francia. E anche sulla ricerca pubblica siamo messi male, con risorse per solo l’1,5% del Pil.
Il 2023 sarà un anno non meno difficile di questo che stiamo per salutare. L’inflazione continuerà a mordere i conti delle imprese, farmaceutiche incluse. Dobbiamo aspettarci un livello di investimenti in ricerca ugualmente soddisfacente?
Il fronte della ricerca e dello sviluppo ha delle aggravanti in Italia e in Europa. C’è un quadro geoeconomico e politico poco favorevole, con dei baricentri in Cina, Usa e India. E qui l’Europa sembra aver perso la sua sfida. Oggi su dieci farmaci approvati dall’Ema (l’Agenzia europea del farmaco, ndr) cinque sono frutto della ricerca americana e due cinese. Le imprese italiane faranno del loro meglio, forti dei 3,1 miliardi che ogni anno investono nella ricerca, di cui 700 milioni in studi clinici. Il resto riguarda l’ammodernamento e l’innovazione dei processi industriali.
Perdoni il pessimismo a buon mercato, ma l’inflazione non può non far paura.
E la fa. La nostra filiera sta scontando gli aumenti spropositati dell’energia, +600%, e delle materie prime. Sappiamo tutti che c’è una dipendenza europea e italiana nell’approvvigionamento di ingredienti attivi, che per il 75% vengono dalla Cina. Anche qui serve una strategia, che leghi la politica della salute alla politica industriale e viceversa. Insomma, serve una visione chiara e definita. Anche perché, diciamolo chiaramente, noi non possiamo scaricare sul consumatore parte di questi aumenti poc’anzi menzionati.
Però se i costi aggiuntivi non si scaricano da qualche parte è un guaio, o no?
In questo senso chiediamo a gran voce che non ci sia una revisione dei prontuari con una revisione dei prezzi, basata su criteri economicistici. Ripeto, mai dimenticarsi che l’Italia è un grande produttore. Ma i grandi produttori debbono essere sostenibili, sempre. Credo sia arrivato il momento di pensare a incentivi non solo per la produzione di farmaci, ma anche in quella degli ingredienti attivi.
Chiudiamo sulla riforma dell’Aifa, arrivata dopo anni di dibattito tra imprese e Regioni. Un parere?
Noi non entriamo nel merito di una riforma che spetta alla politica.
Mi scuserà se provo a insistere…
Una cosa la possiamo dire. L’Aifa è l’agenzia italiana che ha il minor numero di risorse, soprattutto umane, anche in Europa. In questo senso mi auguro che si pensi alla parte operativa della struttura, che deve essere adeguata a una grande economia.