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Negli Usa l’inflazione tira il fiato. Ora palla alla Fed

Dopo mesi di crescita forsennata, ai massimi dai tempi di Ronald Reagan, il costo della vita negli Usa scende al 7,1%. Sulla carta, la pressione sulla Fed che domani deciderà su una nuova stretta sui tassi, dovrebbe diminuire. Ma le cose non stanno proprio così

A voler mettere le mani avanti, l’inflazione negli Stati Uniti ha dato i primi, veri, segnali di cedimento. Può darsi allora che Janet Yellen, segretaria al Tesoro, abbia ragione quando afferma che nel 2023 il costo della vita per gli americani si ridurrà sensibilmente e che dunque il tanto temuto shock non ci sarà.

L’INFLAZIONE AMERICANA TIRA IL FIATO

Antefatto: l’inflazione negli Usa è salita meno delle attese nel mese di novembre, attestandosi al 7,1% il dato principale, mentre gli analisti si aspettavano un rallentamento dal 7,7 di ottobre al 7,3%. Una forte scossa, positiva, che nei fatti allenta la pressione sulla Federal Reserve, che ha dato una decisa stretta ai tassi per combattere il caro prezzi e a rischio di portare la prima economia al mondo in recessione. Un atterraggio pilotato, quanto morbido ancora non si sa, per rompere quella spirale tra inflazione e salari che secondo la stessa Fed avrebbe potuto generare conseguenze ben più negative sugli Stati Uniti. Ora, alla luce di tutto questo, resta da capire l’atteggiamento della Banca centrale americana, il cui governatore, Jerome Powell, non è certo stato tenero nel corso dell’anno, quando si è trattato di rendere il denaro più costoso per tentare di frenare la domanda e spegnere o quanto meno raffreddare l’inflazione. Nelle prossime ore si riunirà infatti il Fomc, il braccio operativo della Fed, chiamato a decidere su un nuovo aumento dei tassi.

LA FED RALLENTA (MA NON SI FERMA)

Le previsioni della vigilia parlano di un piccolo rallentamento del ciclo di aumento dei tassi da 75 punti avviato a giugno. L’aumento, questa volta, potrebbe essere nell’ordine di mezzo punto, portando i tassi in una banda di oscillazione compresa fra il 4,25% ed il 4,5%, a ridosso di quel 5% che rappresenta un po’ una soglia psicologica. Ma questo non implicherà una vera e propria pausa della banca centrali Usa che, ancora preoccupata per una inflazione troppo elevata, proseguirà la sua positiva restrittiva ad oltranza. Proprio di recente lo stesso Powell ha ammesso che l’obiettivo dei tassi al 4,6% appare superato e che il picco potrebbe esser raggiunto “un po’ più su”. Di qui a pronosticare un costo del denaro al 5% ci vuole poco, ma non manca chi prevede uno scenario da Armageddon in cui i tassi arriverebbero al 6,5% nella seconda metà del 2023, un livello toccato l’ultima volta nel 2000, prima dello scoppio della bolla finanziaria.

L’ANNO CHE VERRÀ

E nel 2023, che succederà? Secondo Paolo Zanghieri, senior economist di Generali Investments, “per il 2023 ci attendiamo altri due rialzi di 25 punti base, che porteranno il tasso di policy nel range 4,75%-5%. I membri del Fomc hanno ribadito l’impegno a mantenere i tassi al massimo almeno fino all’inizio del 2024, ma questo impegno sarà messo a dura prova dal peggioramento delle condizioni economiche. Prevediamo che il Pil degli Stati Uniti crescerà solo dello 0,3% l’anno prossimo e si contrarrà nel secondo e nel terzo trimestre. Date queste prospettive, la previsione della Fed di un tasso di disoccupazione di appena il 4,4% alla fine del 2023 sembra troppo rosea: un livello superiore al 5% sembra più probabile. Pertanto, al fine di evitare un atterraggio troppo duro dell’economia, la Fed sarà costretta a tagliare i tassi prima di quanto attualmente pianificato, prevediamo così una riduzione di 50 punti base negli ultimi mesi del prossimo anno”.

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