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Come squarciare il velo sulla manovra di bilancio. L’opinione di Tivelli

Ben pochi si sono interrogati e si stanno interrogando sullo strumento in sé della legge di Bilancio, su come dovrebbe essere un rapporto più virtuoso tra governo e Parlamento e sul fatto se non sia il caso di pensare a un diverso modello di impostazione e governo della finanza pubblica. Il commento di Luigi Tivelli

In questi giorni e ore, molti scrivono o parlano in tanti giornali o in tanti talk show, taluno abbastanza a proposito, molti un po’ troppo a sproposito, sulla legge di bilancio che a breve verrà votata sulla base dell’apposizione della questione di fiducia da parte del governo.

Tanti la chiamano “legge finanziaria”, riflettendo l’eco del vecchio nome che aveva questo strumento normativo. Non mi voglio intrattenere su specifici aspetti, più o meno controversi, più o meno generatori, una volta in più di incertezza del diritto, più o meno monitorati nei giorni scorsi da Bruxelles (si è parlato molto di più, per qualche verso anche con fondamento, ma per altri versi anche per un molto diffuso dilettantismo dentro e fuori dal Parlamento della questione del Pos che di altre questioni), ma dello strumento della legge finanziaria o di bilancio, con gli effetti che di per sé questo comporta.

Man mano nel tempo, la “legge finanziaria” è stata definita, a partire soprattutto dalla metà circa degli anni Ottanta, in vari casi da un grande giurista, ministro del Tesoro e presidente del Consiglio come Giuliano Amato, in altri casi da un osservatore molto meno autorevole come me, o da qualcun altro nei modi più svariati.

Ne cito solo alcuni: legge omnibus, ultimo treno per Yuma, treno fatto di troppi vagoni spesso ripieni di leggi avariate, finanziaria sgabuzzino, e risparmio al lettore altre “definizioni”, spesso con non poco fondamento. Le definizioni da me introdotte sono in larga parte in un libro pubblicato nel 2000 (Viaggio italiano, Mondadori) non a caso a doppia firma con il ragioniere generale dello Stato in carica in quel momento, Andrea Monorchio.

Fra l’altro, è in uscita proprio in questi giorni un altro libro (Memorie di un Ragioniere Generale dello Stato, Rubbettino) da me scritto con Andrea Monorchio, in cui c’è un capitolo nel quale riflettiamo e ragioniamo su una questione onestamente non da poco che è sul tappeto almeno da più di quarant’anni ed è emersa con forza in questi giorni. La questione è più o meno questa: al progressivo sfascio della finanza pubblica, che ha avuto il suo zenit proprio più o meno verso la metà degli anni Ottanta, e per certi versi è proseguito, ha contribuito e contribuisce più il governo o il Parlamento?

Per dare sin da ora un accenno di risposta io, onestamente, credo più il Parlamento, in certe fasi, grazie anche ad un certo modo di operare delle Commissioni bilancio. Ebbi tra l’altro la ventura proprio poco dopo la metà degli anni Ottanta di essere, per l’esercizio delle mie funzioni di Consigliere parlamentare, consigliere addetto alla Commissione bilancio: un osservatorio, per certi versi per fortuna ma per molti versi purtroppo, davvero unico. Un tipo di osservatorio che hanno avuto, tra l’altro, colleghi più anziani e più autorevoli di me, come l’indimenticabile Paolo De Ioanna (poi capo di gabinetto del ministro Ciampi e segretario generale della presidenza del Consiglio nel governo D’Alema) e Giuseppe Vegas poi ottimo vice ministro del tesoro e presidente Consob.

Loro però erano colleghi del Senato e mentre, ad esempio, io ero consigliere addetto alla Commissione bilancio presieduta da Paolo Cirino Pomicino, Paolo De Ioanna svolgeva le sue funzioni alla Commissione bilancio del Senato presieduta dal grande e indimenticabile professor Beniamino Andreatta. Andrea Monorchio, in quel momento era ispettore generale di bilancio (sostanzialmente il numero due della Ragioneria Generale) e per tali funzioni doveva seguire l’iter della legge finanziaria in Parlamento e poteva vedere e capire tante cose. Non a caso, nacque allora la grande nostra amicizia, proprio nel corridoio antistante quella Commissione bilancio.

Io in gioventù ero stato pupillo e allievo di Ugo La Malfa, che fu fra l’altro in un’altra fase uno dei migliori, e con un ben altro stile, presidente della Commissione bilancio della Camera. Non solo. Avevo lavorato come giovane assistente del ministro del bilancio Giorgio La Malfa intorno al 1980, con Paolo Savona segretario generale della programmazione e qualcosa avevo imparato in materia. Pure, assistendo talvolta ai confronti e alle discussioni tra i due ottimi e seri economisti, molto franchi, come erano il ministro del bilancio di allora e il ministro del tesoro Andreatta, molto spesso, sulle questioni di fondo della finanza pubblica. Ebbene, da Consigliere addetto alla Commissione bilancio poi intorno alla metà degli anni Ottanta, rimanevo, diciamo così, non poco stupito del fatto che il treno delle leggi finanziarie di allora entrava nella commissione fatto di più o meno 4 o 5 vagoni ripieni di vari tipi di merci e ne usciva con 7,8 o 9 vagoni con non poca merce avariata.

E se (cito un dato esemplificativo) il disegno di legge originaria del governo entrava con una manovra da 20 mila miliardi di lire a volte guarda caso usciva specie da quel ramo del Parlamento con una manovra da 30/35 mila miliardi). Non faccio altri accenni che sto ricordando e sviluppando in un nuovo libro che pian piano sto scrivendo, ma tornando alle questioni di attualità, devo dire che mi sono sentito abbastanza confortato dal fatto che l’attuale ministro dell’Economia, che ha condotto per conto del governo ( forse anche lui farà qualche errore come può capitare a tutti) l’attuale legge di bilancio, è stato un bravo e serio presidente della commissione bilancio della Camera e in tale veste ha dovuto seguire e trattare molte leggi finanziarie.

Non intendo in questa sede trattare qualche aspetto di merito, per certi versi un po’ discutibile, ma almeno i saldi di finanza pubblica sono stati sostanzialmente rispettati, perché per fortuna tra l’altro si opera sotto l’occhiuto controllo di Bruxelles, ovvio e fondamentale soprattutto per un Paese con un debito pubblico attorno al 150%. E ciò nonostante i stretti tempi come è noto dal fatto che il governo Meloni è nato solo in pieno autunno.

C’è però un punto che vorrei rimarcare: in mezzo ai tanti super esperti, semi esperti o dilettanteschi osservatori che hanno inondato e inondano in questi giorni le pagine dei giornali e talk show, ben pochi si sono interrogati e si stanno interrogando sullo strumento in sé della legge di bilancio, su come dovrebbe essere un rapporto più virtuoso tra governo e parlamento, in riferimento alla legge di bilancio, sul fatto se non sia il caso di pensare a un diverso modello di impostazione e governo della finanza pubblica. Purtroppo, in tantissimi campi e ambiti questo è un Paese per molti versi senza memoria storica. Quanti maxiemendamenti ad esempio in successione in tutti questi anni si sono dovuti presentare alla fine da parte del governo! Quante volte la confusione e l’inflazione di migliaia di emendamenti più svariati ha comportato errori, furbizie, e occhiolini tesi e tendenziali favori agli evasori nel corso delle manovre di bilancio? Questi miei sono solo per ora semplici spunti che spero aiutino qualcuno un po’ a riflettere, magari anche ripercorrendo almeno quarant’anni di storia delle manovre di bilancio.

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