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Sul Mes bisogna saper cogliere le differenze

Oggi, purtroppo, la situazione è completamente diversa rispetto a quando fu (comprensibilmente) evitato il ricorso al Mes. L’Italia dovrà mettere nel conto un aumento della sua esposizione finanziaria pari a circa 25 miliardi l’anno per compensare il mancato rinnovo da parte della Bce degli strumenti del “quantitative easing” che hanno fatto da paracadute. Senza Mes, saremo ancora più scoperti

Rimanere ancorati a vecchie posizioni, come quelle espresse sul Mes – il meccanismo economico di stabilità – qualche anno fa non è una buona idea. Tanto più se si considera che da allora i cambiamenti, intervenuti nella realtà economica e finanziaria di ogni dove, sono stati sconvolgenti. Quelle riserve, in altre parole, erano valide in passato, nel contesto di una situazione economica e sociale completamente diversa, ma oggi non giungere ad una sua rapida approvazione sarebbe solo un atto di autolesionismo. Di fronte alla fine del quantitative easing e alla sua trasformazione nel quantitative tightening, l’Unione europea si troverebbe  sprovvista di qualsiasi strumento d’intervento. E allora l’eventuale crisi economica o finanziaria di un qualsiasi partner europeo non potrebbe che essere affrontata con decisioni prese all’istante, come avvenne per la prima tranche di aiuti a favore della Grecia, o con la più dura e spietata logica del mercato. Ipotesi entrambe da scartare. La prima perché troppo lenta rispetto al possibile decorso della crisi. La seconda perché troppo più costosa da un punto di vista economico e sociale.

Esiste, innanzitutto, questo pericolo? La guerra voluta da Vladimir Putin non è solo un atto spietato contro il popolo ucraino. È anche, se non soprattutto, il tentativo di piegare l’Occidente. Utilizzando lo strumento del gas come political commodity. Costringendolo ad una riconversione produttiva che non sarà né semplice né facile. Da qui le grandi incognite che caratterizzano gli sviluppi dell’economia mondiale. Dal Fmi alla Fed, dalla Bce alla Commissione europea, chiunque si misuri con le incertezze del domani, in termini di previsione, non può non richiamare l’attenzione sui rischi impliciti in ogni valutazione. Logica, allora vorrebbe, che si pensasse ad una sorta di assicurazione. Una struttura non obbligata, ma capace di intervenire nel caso del bisogno.

Perché essa è necessaria oggi, mentre ieri non solo era superflua, ma poteva anche essere controproducente. A partire dal gennaio del 2015, quel paracadute era stato offerto direttamente dalla Bce, grazie appunto al quantitative easing. Soprattutto all’Asset Purchase Programme (App) che, nelle sue quattro declinazioni aveva consentito alla Bce di assolvere alla funzione di last resort – prestatore in ultima istanza – in grado di garantire la stabilità dell’intero sistema e la sostenibilità del debito pubblico di ciascun Paese membro. La data fatidica dell’avvio del programma era stata il 20 ottobre 2014 con la nascita del Covered Bond Purchase Programme per l’acquisto di obbligazioni bancarie garantite. Dal “whatever it takes” di Mario Draghi, del luglio del 2012, erano passati due anni. A dimostrazione di quanto fosse stato difficile convincere il board della Bce a misurarsi con politiche monetarie non convenzionali.

In precedenza, infatti, esisteva soprattutto il Longer Term Refinancing Operation (Ltro) che altro non erano che operazioni “pronti contro termine” (in inglese Repo, abbreviazione di repurchase agreement) necessarie per gestire la liquidità di sistema e quindi incidere sulla struttura dei tassi di interesse. Si trattava, in particolare, di specifici finanziamenti concessi alle banche commerciali ad un tasso di interesse agevolato e con obbligo di restituzione al termine dell’operazione. Il tutto subordinato al perseguimento di obiettivi particolari, specie in tema di sviluppo. Con l’idea di favorire per quanto possibile gli investimenti e gli acquisti. Escludendo dal novero quelli relativi all’edilizia.

A completamento della prima operazione del programma App, a distanza di un mese (21 novembre 2014) era stato varato l’Asset-Backed Securities Purchase Programme (Abspp,), per l’acquisto di titoli emessi in seguito alla cartolarizzazione di prestiti bancari. Le banche rimanevano pertanto i soggetti privilegiati. E lo rimarranno fino al 9 marzo 2015, quando sarà varato il Public Sector Purchase Programme (Pspp), per l’acquisto di titoli emessi da governi, da agenzie pubbliche e istituzioni internazionali situate nell’area dell’euro. Una piccola rivoluzione copernicana, non solo perché si lambiva il divieto della monetizzazione del debito, ma per l’entità delle risorse che saranno destinate alla bisogna. il Corporate Sector Purchase Programme (Cspp), dall’8 giugno 2016), per l’acquisto di titoli obbligazionari e commercial paper emessi da società non finanziarie dei paesi dell’area dell’euro, altro non era che un’estensione del programma precedente.

Caratteristica di questi programmi era l’acquisto di titoli da parte della Bce, che poi venivano depositati, presso le singole Banche centrali di ciascun Paese. Il loro importo era variato nel tempo a seconda dell’evolversi della situazione non solo economica e finanziaria. Con l’avvio della pandemia da Covid, infatti, era stato varato un ulteriore programma denominato Pandemic Emergency Purchase Programme (Pepp), con l’obiettivo di contrastare i gravi e crescenti rischi per il meccanismo di trasmissione della politica monetaria e per le prospettive di crescita derivanti dalla diffusione del virus. Inizialmente il Pepp prevedeva acquisti aggiuntivi di titoli pubblici e privati per complessivi 750 miliardi fino alla conclusione della fase critica del coronavirus, e in ogni caso per tutto il 2020. Successivamente, il programma era stato più volte prorogato ed ampliato fino a giungere, nel dicembre 2020, ad una dotazione complessiva di 1.850 miliardi di euro. Con un orizzonte temporale che doveva giungere fino al dicembre 2023.

Per comprendere il riflesso di queste decisioni sulla sostenibilità del debito pubblico italiano è bene partire dai dati. Nel dicembre 2014, epoca in cui il programma di acquisto dei titoli pubblici doveva ancora essere varato, la Banca d’Italia aveva in pancia solo il 4,8 per cento dei titoli pubblici emessi. Dal 2010 in poi gli investitori esteri avevano cominciato a defilarsi. La percentuale di titoli, da loro posseduti, era scesa dal 40,6 per cento al 33, costringendo le banche italiane a svolgere un ruolo di supplenza. La loro dotazione era aumentata, infatti, dal 24,2 al 30 per cento. Con l’avvio delle operazioni precedentemente indicate, invece, il panorama complessivo del sistema finanziario italiano aveva subito una metamorfosi profonda. I titoli presi in possesso dalla Banca d’Italia erano aumentati fino al 26,2 per cento del totale (agosto 2022) – cinque volte tanto – compensando il disinvestimento di tutti gli altri soggetti. La maggior disaffezione si era riscontrata nel pubblico, che aveva quasi dimezzato l’ammontare dei titoli posseduti nel 2014.

Quali le conseguenze, quindi? Grazie a questi interventi, ogni anno, si sterilizzava una quota crescente del debito pubblico di tutti i Paesi. Alla scadenza dei titoli posseduti dalla Bce, gli stessi venivano automaticamente rinnovati con degli equivalenti. Ed in più si investiva la tranche prevista per quel determinato periodo. Risultato finale (settembre 2022) un finanziamento equivalente, per l’Italia, pari a circa 712 miliardi di euro. Se si considera che il capitale del Mes è pari a 704,8 miliardi, di cui solo 80 sono stati versati e che la sua capacità di prestito ammonta ad altri 500, si può comprendere lo squilibrio esistente nei rapporti di forza finanziari tra le due ipotesi. Considerato che le risorse che fanno capo al Mes non riguardano solo un Paese, ma l’intera Eurozona.

Si spiega così il disinteresse, se non la vera e propria ostilità, di allora per questo nuovo strumento. Che, per altro, non godeva di buona fama, a causa delle vicende greche. Non approvare le modifiche proposte nel 2018, quando i meccanismi della Bce erano in piena funzione, fu un atto di saggezza politica. La sua rinascita, per così dire, avrebbe potuto determinare un corto circuito nei meccanismi decisionali della Bce, data la forte dialettica, all’interno del board, tra “falchi” e “colombe”. I primi tutt’altro che convinti della necessità di continuare sulla strada intrapresa. Se c’era il “nuovo Mes” – questo il possibile ragionamento – era meglio ritornare alle politiche convenzionali, lasciando a quest’ultimo il compito di venire in soccorso ai Paesi più fragili.

Oggi, purtroppo, la situazione è completamente diversa. Il canto del cigno delle politiche non convenzionali si è avuto con il varo, nel luglio 2022, del Transmission Protection Instrument (Tpi). Strumento volto ad assicurare che l’orientamento di politica monetaria fosse trasmesso in modo ordinato in tutti i paesi dell’area dell’euro. Di fatto una mano ai Paesi più esposti, visto che i loro titoli potevano essere acquistati per importi maggiori rispetto al passato, per compensarli dalla concomitante decisione di alzare i tassi d’interesse di 50 punti base. Una scelta ancora coerente con la storia più recente.

La svolta si è invece avuta a metà dicembre, quando si è scelto di percorrere una strada ben diversa. Non tanto l’ulteriore aumento di 50 punti base del tasso di interesse. Considerata una previsione di inflazione pari al 10 per cento, essi, in termini reali, rimangono comunque negativi. Preoccupa invece la decisione di ridurre per 15 miliardi al mese il rinnovo dei titoli posseduti per effetto delle precedenti manovre di QE. Ogni anno, quindi, l’Italia dovrà mettere nel conto un aumento della sua esposizione finanziaria pari a circa 25 miliardi (180 miliardi * 13,82% quota del capitale Bce) per compensare il mancato rinnovo da parte della Bce. Che, nel frattempo, avrà chiuso il suo paracadute. E se non ci sarà neppure il Mes, ogni singolo Paese sarà costretto a operare senza rete.


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