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Con un no al Mes non si recupera la “verginità” sovranista. La versione di Cazzola

Il governo Meloni non ha avuto la forza o la volontà (il che fa lo stesso) di promuovere quel “ravvedimento operoso” che sarebbe stato necessario. Nei giorni scorsi la maggioranza ha votato alla Camera una mozione che “impegna il governo a non approvare il disegno di legge di ratifica del trattato di riforma del Mes”. Come sostenuto dall’economista De Romanis, una decisione autolesionista per l’Italia

Nei classici del giallo l’assassino (quando non è il maggiordomo) ritorna sempre nei luoghi del delitto. Capita anche a Giorgia Meloni. Quando “io sono Giorgia” era solo di lotta e non ancora di governo, condusse una lotta feroce (insieme ad altri partiti che erano tra i partner della maggioranza di quei tempi funesti) contro il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), sostenendo da pugnace sovranista che aderendo alla revisione del trattato, l’Italia avrebbe fatto la fine della Grecia.

In verità, a questa preoccupazione si sarebbe dovuto rispondere con un sonante “Magari!”. Perché quel Paese, culla della cultura europea, sta ancora ringraziando la trojka per averlo accompagnato lungo un doloroso cammino di risanamento mentre era già con un piede nella tomba.

Persino Alexis Tsipras, il leader dell’ultra sinistra (L’altra Europa) nelle elezioni europee del 2014 si era reso conto che l’alternativa preconizzata dai suoi sodali (in Italia erano tanti ancorché sempre i soliti) non avrebbe portato da nessuna parte, se non a sprofondare completamente nella fossa comune scavata con le proprie mani.

Il Mes era già in circolazione in Europa. Si tratta, infatti, di una organizzazione istituita nel 2012, sulla base di un Trattato intergovernativo, per fornire assistenza finanziaria ai Paesi dell’eurozona, nel caso in cui tale intervento risultasse indispensabile per salvaguardarne la stabilità finanziaria dell’area valutaria complessivamente considerata e dei suoi Stati membri. Il Mes ha affiancato e poi sostituito due strumenti transitori di stabilizzazione finanziaria: il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Mesf) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf). Secondo l’approccio esposto nel Trattato istitutivo (si veda il Dossier del servizio studi del Senato del novembre 2019) la prima linea di difesa dalle crisi di fiducia in grado di compromettere la stabilità della zona euro dovrebbe essere rappresentata dal rigoroso rispetto del quadro giuridico dell’Unione europea, del quadro integrato di sorveglianza di bilancio e macroeconomica, con particolare riguardo al patto di stabilità e crescita, del quadro per gli squilibri macroeconomici, delle regole di governance economica dell’Unione europea e del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (cosiddetto Fiscal Compact).

Il Mes si configura dunque come uno strumento residuale rispetto a tali presidi e può fornire un sostegno alla stabilità articolato in una serie di azioni, alle quali sono associate condizioni rigorose (principio della “rigorosa condizionalità”), proporzionate alla tipologia di assistenza finanziaria cui si intende fare ricorso. È su questo punto che è cascato l’asino del sovranismo: non sia mai che qualcuno venga in casa nostra a dirci che cosa dobbiamo fare.

A qualunque persona di buon senso dovrebbe sembrare pacifico che il soggetto fisico o giuridico che ne aiuta un altro in difficoltà erogandogli risorse (non di sua proprietà ma avute in gestione dalla comunità allo scopo di aiutare chi versa in difficoltà tanto seria da creare problemi anche ai partner) abbia il diritto di metterci il naso. Del resto tutto lasciava ritenere che questo livello di polemiche appartenesse ad un contesto travolto dalla crisi della pandemia, dagli interventi della Bce nell’acquisto dei titoli del debito sovrano dei Paesi di cagionevole salute finanziaria e soprattutto dal varo del Next Generation Eu, un piano di aiuti che – lo segnaliamo a chi l’avesse dimenticato o non se ne fosse accorto – rappresenta un cambiamento radicale nella governance dell’Unione, nel senso che l’erogazione delle risorse è condizionato alle scadenze di un cronoprogramma sottoposto e condizionato dalle verifiche della Commissione. In sostanza la “verginità” sovranista è già perduta; non ha senso volerla esibire nel caso del Mes, a causa delle procedure previste.

L’assistenza finanziaria del Mes può essere offerta – spiega il Dossier – previa domanda da parte di uno Stato aderente, nel caso in cui una situazione critica dal punto di vista nazionale minacci la stabilità finanziaria dell’intera zona euro e degli Stati membri che ne fanno parte. La fornitura di assistenza finanziaria ha, come conseguenza, la definizione di condizioni che lo Stato debitore è chiamato a rispettare, più o meno rigorose in ragione dello strumento di assistenza finanziaria scelto. Tali condizioni possono fare riferimento ad azioni e programmi da attuare per ottenere un miglioramento del bilancio dello Stato, o a parametri per i quali viene fissato un obiettivo quantitativo da rispettare, lasciando allo Stato la definizione degli strumenti da utilizzare a tal fine.

L’obiettivo del Mes è, dunque, quello di salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e dei suoi Stati membri. A tal fine, il meccanismo può intervenire per fornire un sostegno alla stabilità dei Paesi aderenti che si trovino in gravi difficoltà finanziarie o ne siano minacciati, sulla base di condizioni rigorose, commisurate allo specifico strumento di sostegno utilizzato. Affinché gli strumenti a disposizione del Mes siano efficaci, l’organizzazione deve poter intervenire in modo significativo: la capacità minima di prestito è pari a 500 miliardi di euro, soggetta a verifica periodica almeno ogni cinque anni.

I prestiti del Mes fruiscono dello status di creditore privilegiato in modo analogo a quelli del Fondo monetario internazionale (Fmi). Sul piano delle risorse a disposizione, oltre al capitale sottoscritto dagli Stati aderenti, il Mes ha la possibilità di raccogliere fondi emettendo strumenti del mercato monetario, nonché strumenti finanziari di debito a medio e lungo termine, con scadenze fino a un massimo di 30 anni. Quale è allora la preoccupazione dei sovranisti? L’operatività dei meccanismi decisionali. Infatti, le decisioni relative alla concessione di assistenza finanziaria agli Stati aderenti sono adottate dal Consiglio dei governatori secondo la regola del comune accordo (unanimità dei membri partecipanti alla votazione, senza contare le eventuali astensioni).

Al fine di rendere più flessibile il sistema decisionale in circostanze straordinarie in cui appare minacciata la stabilità finanziaria ed economica della zona euro, è previsto il voto a maggioranza qualificata dell’85% del capitale, qualora la Commissione e la Bce evidenzino la necessità di decisioni urgenti. In tali casi, in cui viene meno la regola del comune accordo, ai fini della decisione diviene rilevante il numero di diritti di voto di ciascun Stato aderente, proporzionale alla quota di partecipazione al capitale versato. Ma anche con queste regole nessuno può imporre una decisione non condivisa al nostro Paese, poiché, in base all’attuale distribuzione dei diritti di voto Germania, Francia e Italia mantengono la possibilità di determinare, con la propria scelta individuale, l’esito delle votazioni a maggioranza qualificata previste nei casi d’urgenza.

Alla luce dell’assetto proprietario del Mes, invece, solo Germania e Francia conservano la possibilità di determinare il risultato della votazione del direttore generale con il proprio voto individuale, mentre l’Italia non ha questa possibilità. Ma è il solo limite.

Il governo Meloni non ha avuto la forza o la volontà (il che fa lo stesso) di promuovere quel “ravvedimento operoso” che sarebbe stato necessario. Nei giorni scorsi la maggioranza ha votato alla Camera una mozione che “impegna il governo a non approvare il disegno di legge di ratifica del trattato di riforma del Mes”.

Veronica De Romanis, in un articolo su La Stampa mette in evidenza l’autolesionismo di questa decisione. E ha ragione, anche perché quell’atto politico suona come un invito di non ingerenza dell’Europa negli affari italiani frutto di una cultura del “sospetto” per lo “straniero” che mette in cattiva luce anche la richiesta del governo di rivedere il Pnrr e lascia pensare che non vi è solo un problema di ritoccare la clausole finanziarie degli appalti con un occhio all’inflazione, ma – forse – il tentativo di sottrarsi ai vincoli della nuova governance della Ue, nel momento in cui, dopo il “liberi tutti” durante l’emergenza sanitaria si deve tornare in un ambito di regole condivise e stabili.


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