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Perché ai Mondiali ci sono così tante bandiere palestinesi

Il Marocco festeggia lo storico accesso ai quarti di finale ai Mondiali con i calciatori che sventolano la bandiera palestinese. Perché? Qatar2022 racconta che agli Accordi di Abramo manca ancora la condivisione tra le masse

“In un torneo bombardato da tutti i fronti da preoccupazioni politiche, la causa della Palestina è una sorta di leitmoti”, scrive Ishaan Tharoor di “Today’s World Views”, la newsletter con cui il Washington Post fotografa quotidianamente ciò che di rilevante accade nel mondo.

E in effetti, il ruolo che la questione palestinese ha preso nel contesto dei Mondiali in Qatar è piuttosto rilevante perché racconta come ancora l’argomento interessi il mondo arabo. Lo hanno dimostrato i calciatori marocchini che hanno festeggiato con la bandiera della Palestina in mano la vittoria contro la Spagna; lo dimostra l’ampia diffusione del simbolo palestinese tra i tifosi.

Da notare che mentre le autorità qatarine hanno lavorato per obliterare la possibilità di mostrare in pubblico i segni dell’iconografia arcobaleno LGBTQ+ e hanno cercato di limitare qualsiasi tipo di slogan contro il regime iraniano, l’uso della bandiera palestinese come simbolo di una battaglia politica che dura da anni è ampiamente concesso.

D’accordo che si tratta di un vessillo istituzionale e dunque più difficile da non autorizzare, ma è anche possibile che il Qatar abbia fatto una scelta. Doha vuole darsi una posizione all’interno del mondo islamico e differenziarsi — con attenzione e garbo — anche per la posizione mantenuta riguardo ai palestinesi.

Almeno di facciata, almeno davanti alle collettività di arabi e musulmani ordinari che ancora vivono il destino dei palestinesi come parte del proprio destino, o quanto meno del proprio interesse. La questione tocca gli Accordi di Abramo: come è percepita la normalizzazione delle relazioni con Israele di alcuni Paesi — Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan — dalle masse?

“I decenni di umiliazione, risentimento e rabbia che molti arabi provano nei confronti di Israele non possono semplicemente svanire con la firma di tali accordi di normalizzazione”, spiega Giorgio Cafiero, CEO di Gulf State Analytics, una delle più attive società di consulenza sul mondo arabo con sede a Washington.

Gli Accordi Abramo, creati dall’amministrazione Trump e preservati da quella Biden, sono stati l’innesco di una serie di dinamiche regionali che ha in qualche modo forgiato un nuovo ordine nella regione. Dalle élite (politiche e business) israelo-arabe sono considerati come un processo di distensione formidabile, e in effetti lo sono — tanto che anche Paesi non direttamente firmatari, come l’Arabia Saudita, ne sono di fatto parte e coinvolti.

Della loro forza politica e geopolitica si è più volte parlato, anche recentemente a proposito di movimenti incrociati a cavallo del Medio Oriente fino a qualche tempo fa quasi inimmaginabili e ora possibili. Per esempio i voli diretti dall’aeroporto Ben Gurion a Doha che hanno permesso anche ai palestinesi di assistere alle partite dei Mondiali.

Eppure, come anche il sentimento diffuso tra le vie di Qatar2022 racconta, sono percepiti in modo nettamente diverso tra quelle élite e la popolazione ordinaria. Quest’ultima preserva ancora un livello di scetticismo nei confronti degli israeliani. “Ci sono molti tentativi da parte di molte persone qui [in Qatar] da tutto il mondo arabo, di mettersi contro di noi perché rappresentiamo la normalizzazione”, ha detto Ohad Hemo, reporter dell’israeliano Channel 12 parlando con Tharoor: “Il desiderio degli israeliani si è avverato, abbiamo firmato accordi di pace con quattro Stati arabi, ma c’è anche la gente, e a molti di loro non piace la nostra presenza qui”.

“Non si tratta di una critica agli Accordi di Abramo, né alla pace con la Giordania e l’Egitto”, ha scritto Lahav Harkov del Jerusalem Post, piuttosto “sono tutti significativi e hanno portato risultati positivi per Israele e per quei Paesi. Ma è anche un campanello d’allarme sui limiti di quegli accordi”.

Non è una novità: su queste colonne il vicepresidente dell’Ispi, Paolo Magri, aveva subito evidenziato il limite riguardo alla cura che gli Accordi hanno sulla questione palestinese. Era gennaio 2020, ora un sondaggio fatto qualche mese fa dal Washington Institute ha mostrato che la stragrande maggioranza dei cittadini comuni di molti Paesi arabi, compresi quelli che hanno partecipato agli Accordi di Abramo, disapprova la formalizzazione dei legami con Israele. “Dopo la firma degli Accordi di Abramo con diversi Paesi arabi nel 2020, gli opinionisti di destra hanno affermato che il destino dei palestinesi non interessa più agli altri arabi”, ha scritto Uzi Baram su Haaretz, un quotidiano israeliano di sinistra che usa certi argomenti anche per ragioni politiche.

Teoricamente gli Accordi riportano un articolo che legherebbe la realizzazione degli stessi alla “creazione di uno Stato palestinese”. Ma è un aspetto a cui è stata data finora importanza relativa. Ammesso che sia un moto spontaneo, la vicinanza che le persone di altre nazioni arabe hanno riguardo alla questione palestinese esposta in modo così forte durante questi primi Mondiali del mondo arabo, impone un cambio di passo anche su questo livello socio-culturale.

È anche per stringere il divario che esiste tra l’implementazione che le leadership stanno spingendo e le percezioni tra le collettività che viene spinto un processo di dialogo che possa ad andare a toccare le persone. Non è un caso che eventi come quella organizzata dall’Atlantic Council a Rabat nei giorni scorsi, nell’ambito della N7 Initiative, si basino su concetti come il people-to-people e apertura e condivisione culturale. È questo uno dei problemi dietro alla potenziale normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita: Riad sa che il ruolo di protezione dei luoghi sacri impone al regno particolari attenzione su temi come quello dei palestinesi.



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