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Francesco e il riferimento natalizio alla tragedia iraniana

Forse le parole del papa vanno lette tenendo a mente l’ormai imminente simposio cattolico-sciita promosso a marzo in Iraq dal patriarca caldeo (e cardinale di Santa Romana Chiesa) Louis Sako e da importanti esponenti del mondo sciita chiaramente connessi con la scuola teologica di Najaf, guidata da quel’ayatollah al-Sistani che il papa ha incontrato durante il suo viaggio in Iraq

Basta fare una semplice ricerca su Google, “Papa Iran”, per rendersi conto di quanti nelle ultime settimane si siano esercitati su un tema importante: “come mai il papa non parla d’Iran?” Dalla destra ringhiosa alla sinistra convinta della propria superiorità a onesti e qualificati osservatori perplessi, molti si sono interrogati se fosse un vero e proprio silenzio, un’omissione da parte del papa della fratellanza. E le donne? E le condanne a morte sommarie e feroci, e quelle torture insopportabili? Molto accade nel mondo, anche contro cristiani o popolazioni dove i cristiani sono molto presenti che il papa non cita espressamente, ma il caso iraniano ha richiamato, giustamente, molte attenzioni.

Ieri, pronunciando il messaggio urbi et orbi, papa Francesco non ha potuto citare tutte le ingiustizie, le prevaricazioni feroci che accadono al mondo, in questo nostro mondo. Ma dopo aver parlato di Ucraina, Siria (una guerra non finita ma dimenticata) e Terra Santa, Francesco ha detto di auspicare che la luce di Cristo “Orienti verso una tregua duratura nello Yemen e verso la riconciliazione nel Myanmar e in Iran, perché cessi ogni spargimento di sangue”.

Non era un dovere sancito su carte bollate mettere nello stesso cesto la giunta guidata dal presidente-chierico Raisi e sottoposta alle scelte teocratiche dell’ayatollah Khamenei, per il quale lo Stato deve imporre il bene e sradicare il male secondo la sua personale interpretazione della realtà, e la giunta birmana. Eppure eccolo qui l’accostamento tra Iran e Myanmar. Parliamo della giunta che perseguita fino alle porte del genocidio i rohingya, che Bergoglio è andato a visitare nei campi profughi del Bangladesh, quando disse “la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”. Nessuno può dire che sia stato un accostamento nel senso di aver equiparato, anche se difficilmente si può dire che oggi la riconciliazione nel vasto spazio asiatico sia necessaria solo in Myanmar e in Iran.

L’indicazione ha valore per la fratellanza umana in tesa come bussola del pontificato, per l’idea di bene comune, visto che il papa ha deciso, evidentemente con il supporto della Segreteria di Stato, di farvi riferimento in un momento così solenne.

La ferita iraniana è profonda e riguarda essenzialmente l’islam, il suo dibattersi alla ricerca di una riforma che oltre al lavoro sunnita del grande imam dell’università islamica di al-Azhar, Ahmad Tayyib richiede anche un corrispettivo sciita, come indicato chiaramente in occasione del recente viaggio in Bahrein. Forse allora le parole del papa vanno lette tenendo a mente l’ormai imminente simposio cattolico-sciita promosso a marzo in Iraq dal patriarca caldeo (e cardinale di Santa Romana Chiesa) Louis Sako e da importanti esponenti del mondo sciita chiaramente connessi con la scuola teologica di Najaf, guidata da quel’ayatollah al-Sistani che il papa ha incontrato durante il suo viaggio in Iraq e con il quale ha convenuto nel nome proprio della fratellanza umana. Sistani non ha mai riconosciuto la validità sciita della teoria teocratica varata da Khomeini e quindi costituisce un punto di riferimento indiscutibile per ogni sforzo di favorire un pluralismo islamico tra sunniti e sciiti e quindi partendo da questo anche per le loro società.

Il messaggio urbi et orbi del 2022 merita certamente un’attenzione che non si limita a questo, ma questo è un passaggio che a mio avviso è stato sottovalutato in queste ore.

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