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Vogliamo riprendere la parola. Fioroni detta la linea per i popolari

Non si tratta di operare scissioni a caso, sull’onda di un fuggi fuggi sotterraneo, spesso per una reazione a lungo trattenuta; bensì di recuperare autonomia di analisi e proposta, con spazi di agibilità politica e con l’impegno a rendere visibile il contributo del popolarismo nei termini consigliati o imposti dalle circostanze. È questa la necessità, anche a prescindere da come vada il congresso del Pd

Potrei prendere il discorso alla larga, parlando della crisi della politica e dello smarrimento di molti che alla politica hanno dedicato la vita, con passione e serietà. Potrei ricordare che questo smarrimento investe soprattutto i giovani, oggi tra gli attori non protagonisti della secessione dalla politica intesa come militanza e partecipazione. E potrei infine, e solo per inevitabile conseguenza, tirare in ballo la delusione che attanaglia una folta schiera di elettori – a spanne quella “Italia di mezzo” distante dal sovranismo e dal populismo – per le sorti del Pd, tanto da condizionare il giudizio sulla ripresa di questo partito dopo la sconfitta del 25 settembre scorso. Invece non lo faccio, pur convinto che l’analisi contenga tante particelle di verità, sebbene non la verità di fondo sulla crisi del Pd.

Che intendo dire? Bisogna trovare il bandolo della matassa di questa ricerca affannosa attorno alla causa prima che avrebbe determinato lo scacco del “partito unico del riformismo”. Oggi due tesi si fronteggiano, entrambe collegate al discorso sulle origini: la prima, fiduciosa nella bontà del progetto esibito da Veltroni al Lingotto, denuncia l’inadeguatezza sperimentata in quindici anni di vita del partito, con l’effetto negativo di un riformismo frammentario e incoerente, senza piena consapevolezza delle sue responsabilità di fronte al Paese; la seconda, già ostica all’epoca verso il compromesso “lib-lab” alla Tony Blair, punta il dito sugli esiti dannosi provocati dall’adesione a un certo liberismo di sinistra, con gli inganni derivanti dalla retorica “buonista” sulla globalizzazione. Ora questa dialettica si riflette sullo scenario del congresso e alimenta il confronto tra i candidati alla segreteria.

Sembra una dialettica risolutiva, ma in realtà non lo è dal momento che rimuove l’illusione del felice contaminarsi di culture e identità politiche, avendo con ciò immaginato di venire a capo delle contraddizioni (e delle colpe) del Novecento. Si pensava che attraverso un generale rimescolamento di carte saremmo riusciti a illuminare di nuova luce il riformismo e a farne la bandiera di una possibile maggioranza democratica, in alternativa al centrodestra a guida berlusconiana. L’illusione è consistita nel credere alla conquista di una sintesi superiore, dopo il lungo ciclo delle contrapposizioni ideologiche tra grandi partiti di matrice popolare; sicché, una volta intrapresa la via della contaminazione post-ideologica, si è sfibrato il tessuto delle vecchie identità di partito senza ottenere nulla di significativo in cambio, anzi conferendo al riformismo un che di artificiale, persino svincolato dalla realtà.

In sostanza, per venire incontro alle difficoltà di una sinistra orfana del mito della rivoluzione, benché “democratica e progressiva” secondo la versione del comunismo italiano, si è finito per gettare nel calderone delle ideologie da rottamare quella che non era neppure un’ideologia in senso stretto, ma una cultura politica viva e vitale, per altro uscita vittoriosa dalle lotte del “secolo breve”: vale a dire, la cultura rappresentata dal popolarismo di ispirazione cristiana. E quando il Pd ha scelto l’ancoraggio in Europa al gruppo parlamentare dei socialisti – da quel momento ridenominato “socialisti e democratici” – ha reso ancora più ardua la tenuta del popolarismo a motivo della sua intrinseca subalternità alla sinistra neo-illuminista, preoccupata sempre più di estendere e garantire i diritti individuali, più che incarnare un progetto di solidarietà in armonia con i principi e i valori iscritti nella Carta costituzionale.

Ora, non si fatica molto a comprendere come il risveglio dalla illusione del partito pluridentitario, e perciò senza identità alcuna ma con l’ansia di una “radicalità” a supporto dell’insufficienza di pensiero politico, comporti un soprassalto di consapevolezza dei popolari, ovvero di quanti hanno a cuore la ripresa e lo sviluppo di una cultura democratica a impronta cristiana, capace di guardare avanti e di prefigurare la costruzione dell’alternativa all’attuale Destra di governo. Non si tratta di operare scissioni a caso, sull’onda di un fuggi fuggi sotterraneo, spesso per una reazione a lungo trattenuta; bensì di recuperare autonomia di analisi e proposta, con spazi di agibilità politica e con l’impegno a rendere visibile il contributo del popolarismo nei termini consigliati o imposti dalle circostanze. È questa la necessità, anche a prescindere da come vada il congresso del Pd.


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