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Come superare l’atavica tendenza a dire “no” nell’amministrazione pubblica

Le frasi del ministro Crosetto sulla burocrazia italiana hanno aperto un confronto. Il problema sono le regole o i funzionari? Per Massimiliano Atelli, presidente delle commissioni Via-Vas e Pnrr-Pniec, va messo in discussione l’approccio metodologico, che è fatto culturale, stratificatosi nel corso dei decenni, e radicatosi diffusamente. Qualche proposta per uscire da questo vicolo cieco

Resiste ancora, nell’amministrazione pubblica italiana, una sottocultura che – di fronte a tante questioni – cerca in prima battuta una ragione per dire NO? Si, resiste. Non dappertutto, non sempre, ma resiste.

Una sottocultura non giustificabile, ma comprensibile: dire NO è in genere più semplice, e, concretando la scelta più conservativa possibile, espone chi deve prendere una decisione al rischio minore.
Non si vuole con questo dire che vanno al contrario ricercate le ragioni per dire SI a ogni costo. Anche questo, ovviamente, non va bene.
Si vuole qui più semplicemente ribadire che ciò che occorre è un atteggiamento neutrale della PA, nel senso di privo di pregiudizi, o anche, soltanto di pulsioni verso scorciatoie di comodo.

Del resto è oggi sempre più evidente, almeno per quanto riguarda i processi autorizzatori, che l’istanza iniziale del privato rappresenta essenzialmente un punto di partenza di una vicenda che – attraverso la partecipazione e l’apporto di istituzioni, dal lato del pubblico, e di portatori di interessi (compresi i controinteressati, naturalmente), dal lato del privato – di rado trova sbocco ed esito in un semplice SI o in un semplice NO.

È probabilmente questo il tratto che, nell’attualità, distingue maggiormente gli schemi amministrativi del tempo “di prima” dagli schemi amministrativi del tempo presente.
Nell’ambito di questi ultimi, specie quando l’istanza iniziale finisce per catalizzare e toccare interessi diversificati, di variabile portata (inclusi alcuni di rango costituzionale), l’iter amministrativo sfocia in effetti che sono all’evidenza conformativi della pretesa (di ampliamento della sfera giuridica) avanzata con la richiesta di autorizzazione: non soltanto declinandola in parte diversamente (ad es., spostare rotaie o pannelli solari di qualche centinaio di metri), ma financo, se del caso, riducendone la stessa portata complessiva (ad es., ridurre il numero delle pale eoliche previste).

Come si supera una certa atavica pulsione a cercare, in prima battuta, una ragione per dire NO?
Per decreto, come se si trattasse di probelma risolvibile con un tocco di bacchetta magica, non è possibile. In discussione, infatti, è l’approccio metodologico, che è fatto culturale, originatosi in altra temperie burocratica, stratificatosi nel corso dei decenni, e radicatosi diffusamente.

Occorre, allo scopo, intervenire con ricette appropriate su ciò che influisce sul “modo di guardare le cose” da parte dei singoli decisori amministrativi: percorsi formativi (più aperti all’interdisciplinarietà, che crea contaminazioni virtuose fra culture propfessionali distinte e distanti), sistemi di reclutamento (sganciati, per un verso, dall’idea insensata che un pensionamento senza ricambio sia sempre la soluzione preferibile, allo scopo di risparmiare, e attenti, per altro verso, anche a skills meno passatiste), paura della firma (che è problema reale), meccanismi di premialità legati in teoria alla cultura del risultato (superando il dato poco realistico, tuttavia sostantivo nel reale, di valutazioni sempre massime per tutto il personale dirigenziale), livellamento indifferenziato dei tetti retributivi (che allontana e scoraggia le figure più talentuose e certo non stimola a quel prudente osare che, probabilmente, con 2.200 miliardi di debito pubblico, è la sola strada che ormai rimane al nostro Paese).


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