I lobbisti seri, etici e consapevoli, che rispettano la legge e che sono orgogliosi di poter contribuire con la loro professionalità al processo democratico non hanno nulla a che vedere con i criminali prezzolati. I nostri colleghi giornalisti che parlano di “pascoli” dovrebbero ascoltarci e capire il valore strategico del nostro lavoro. Scrive Vincenzo Manfredi, delegato nazionale Lobby e Advocacy della Federazione nazionale relazioni pubbliche (Ferpi)
Non ci sono dati precisi su quanti siano gli esperti di relazioni pubbliche, public affairs e lobby che lavorano in Italia. Mentre alcuni famosi giornalisti parlano in televisione di lobbisti che “pascolano” in parlamento, potremmo azzardare una cifra: quasi centomila sono i professionisti delle relazioni pubbliche – non solo lobbisti – ma tutti quei professionisti che sono specializzati in comunicazione, una disciplina quindi della scienza del management, che si occupa della gestione delle organizzazioni complesse. La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi segmenti di pubblico influente.
Un’immagine quella del pascolare in parlamento che non è offensiva per i relatori pubblici ma lo è per la democrazia, che come sistema complesso ha bisogno dei relatori pubblici e dei lobbisti per essere equilibrata e consapevole.
Dopo lo scandalo #Qatargate c’è una nuova tempesta perfetta nei confronti di una professione che anche i più informati continuano a non voler capire. La rappresentanza di interessi, etica e consapevole, è frutto di analisi, studio, approfondimento. Le tecniche del lobbying e del public affairs sono uno strumento manageriale evoluto che consente alle organizzazioni di essere consapevoli e pronte – all’interno della complessità sistemica – nel rispondere alle sollecitazioni e ai cambiamenti.
Rappresentare interessi legittimi, sebbene particolari, non ha nulla a che fare con i sacchi di banconote che faccendieri e delinquenti sono disposti ad accettare in cambio di non si sa quale processo di influenza. Tutti i professionisti del settore non rappresentano interessi e non analizzano i sistemi complessi in cambio di sacchi di banconote ma sulla base di contratti di rappresentanza regolati dal diritto civile. Certo ciò che manca è una regolamentazione della professione: non è certo colpa dei lobbisti se non si è mai riusciti ad arrivare ad una legge che regolamenti il sistema.
La questione è molto complessa: riguarda prima di tutto la trasparenza del processo democratico, la trasparenza del processo decisionale pubblico.
La Ferpi in quanto associazione di persone – che da più di cinquant’anni rappresenta i relatori pubblici, i comunicatori, i public affairs manager e i lobbisti – da sempre auspica che ci possa essere una legge che regoli il sistema di rappresentanza, una legge capace di riconoscere il valore della professione e della “cura” che i relatori pubblici apportano al processo democratico e al decision making. In questo la cura ha a che vedere con il trasferimento, sui tavoli negoziali, delle istanze e dei processi delle organizzazione per rendere il processo decisionale informato e consapevole e per dare alla collaborazione pubblico privato un contenuto strategico di creazione di valore duraturo e sostenibile.
I lobbisti seri, etici e consapevoli, che rispettano la legge e che sono orgogliosi di poter contribuire con la loro professionalità al processo democratico non hanno nulla a che vedere con criminali prezzolati. È arrivato il momento di cambiare questa narrativa che lede gli interessi delle organizzazioni e degli stessi paesi democratici. Non a caso, facciamo notare, i sistemi democratici prevedono la rappresentanza di interessi – regolata secondo norme diverse nei diversi paesi – mentre i paesi non democratici non prevedono la rappresentanza di interessi.
Anche l’OCSE nel suo rapporto sulla lobby afferma che la lobby è un modo per informare e influenzare i governi. È una attività lecita (anche quando non è regolata da norme specifiche) ed è parte integrante della democrazia da almeno due secoli. Strumento legittimo per influenzare le politiche pubbliche: è una attività che fa parte del più vasto insieme del public affairs, che a sua volta è una delle discipline delle relazioni pubbliche. Scrive l’Ocse: “Il lobbying può favorire la partecipazione democratica e fornire dati e analisi utili direttamente ai responsabili decisionali”. Se non c’è completa trasparenza e integrità ci potrebbero essere comportamenti elusivi delle norme di rappresentanza di interessi e distanziare il policy making dall’interesse pubblico generale. Ma è proprio questo il punto.
Rimettere al centro del dibattito il valore e l’efficacia delle relazioni pubbliche ci consente di “rallentare” lo sguardo, non lasciandoci ingabbiare dalla tentazione del breve termine e ci consente di dare all’ascolto, all’analisi – alla valutazione ex ante e alla rendicontazione ex post – lo spazio corretto. Porre al centro la costruzione di senso e di significato e non le urla scomposte, la velocità della comunicazione che invade, ma non crea, le tecniche ispirate solo dal profitto e non dalla creazione di valore. L’obiettivo delle relazioni pubbliche, come funzione di management, è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi stakeholder: orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni degli stakeholder influenti e di tutti i soggetti che a vario titolo interagiscono con l’organizzazione.
Soggetti che possono ostacolare o agevolare il raggiungimento degli obiettivi di management e di governance perché dotati di specifici poteri decisionali o perché in grado di creare influenza. Non si annichilisce il dialogo o il rispetto fra le parti ma si creano i presupposti per una negoziazione sostenibile ed inclusiva. E da questo punto di vista gioca un ruolo cruciale il pensiero critico e l’intelligenza contestuale, una intelligenza emotiva che il relatore pubblico attua in quanto “ingegnere delle relazioni” e dei processi di cambiamento: analisi di contesto/scenario; definizione degli obiettivi di governance; sviluppo e implementazione della strategia; creazione e attivazione della tattica; valutazione costante e miglioramento continuo. Le relazioni pubbliche diventano una parte fondamentale della strategia complessiva dell’azienda.
Se consideriamo le relazioni pubbliche come espressione di molteplici funzioni di management – Corporate Reputation, Corporate branding e Identity, Brand Management, Public Affairs, Lobbying, Advocacy, Public Policy, Risk management, Issue Management, Crisis Management, Cause related marketing, e tante altre – forse è possibile capire allo stesso tempo la complessità della materia e le sue intersezioni strategiche in tutti gli ambiti di governance.
Le relazioni pubbliche sono una liturgia che sta al centro, tra leadership e potere, e procede per la risoluzione dei problemi complessi affinché il gioco non sia a somma zero, o che comunque ci possa essere, anche se in parte, soddisfazione per tutte le parti in gioco. Una relazione fatta di regole e trasparenza, di regolamenti complessi e di verifica sul medio lungo periodo delle decisioni in corso.
Noi lobbisti non abbiamo nulla a che fare con i faccendieri o con i delinquenti. È arrivato il momento che i nostri colleghi giornalisti esprimano la loro necessità di diventare edotti sul serio del valore strategico della nostra professione. Noi siamo disponibili.