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Ratzinger, la complessità e quella volta che parlò del Concilio al clero romano

La lezione ratzingeriana sul Concilio, di pochi anni fa, rimane di grande attualità e importanza per chiunque abbia interesse a questi temi e anche alle sue implicazioni odierne

Ricordare Joseph Ratzinger vuol dire confrontarsi con la complessità, con il Concilio Vaticano II, con l’Europa, con il ‘900. Del tanto che si può dire di lui è certamente vero infatti che è stato un giovane straordinario progressista, un anziano straordinario conservatore, prima quale protagonista del Concilio, poi quale suo interprete, l’ultimo – sin qui – papa europeo e l’ultimo papa del Novecento, quale suo autentico figlio. Ma la sua storia si è trasformata nel giorno delle sue dimissioni, divenendo anche un artefice della riforma nel governo e del governo della Chiesa. L’artefice di un balzo inatteso al punto che il governo della figura del Papa emerito, che per molti dovrebbe diventare quella del vescovo di Roma, crea ancora problemi di metodo e di prassi.

Le sue dimissioni sono state un autentico atto di fede, coraggio, governo e cambiamento, al di là del peso che si voglia attribuire alle possibili intenzioni. Certamente in quella fase conclusiva del suo governo Benedetto XVI agí su vari fronti interni, a partire dallo IOR, in modo innovativo, dopo il trauma collettivo dello scandalo dei documenti trafugati.

Quale tratto è più importante? Certamente il rapporto tra Ratzinger e il Concilio. Il Concilio ha conosciuto con Woytjla e Ratzinger una lunga stagione di interpretazione tesa verso il consolidamento di una prospettiva da “rinnovamento nella continuità”, poi è arrivata la stagione dell’attuazione. Quindi si può dire che la storia umana ed ecclesiale di Joseph Ratzinger è indissolubilmente legata al Concilio, il più grande evento pluralista del XX secolo, che lo ha visto emergere come artefice intraprendente prima ed interprete cauto e anche preoccupato poi. Qui la sua avventura umana e teologica ha conosciuto gli spunti più importanti e complessi. Il bilanciamento tra rinnovamento e continuità è stato molto trattato nella valutazione del suo magistero che non ha nascosto il suo desiderio di superare ogni idea di discontinuità.

Ma usando un linguaggio caro al suo successore sulla cattedra di Pietro si può dire che l’aspetto importante del Concilio è la sua realtà, cioè il processo che ha avviato e senza Ratzinger questo processo avrebbe perso un motore decisivo. Stabilire dall’esterno se sia stato un processo nella continuità o meno conta molto meno del processo in sè.

Vorrei però tentare di arrivare a questo capitolo partendo da alcuni importanti eventi successivi, perché la lettura dei grandi capitoli a cui ha contribuito dopo il Concilio non è sempre concorde, ma a volte è distorta da letture che possono apparire ovvie ma anche facili. E nel grande mare dei temi prioritari vorrei soffermarmi su quello più arduo, il dialogo, alla luce di alcuni casi di rilievo assoluto: leggerli insieme può aiutare a farsi un’idea di curve e rettilinei nella sua azione.

Volendo trattare di questo, invece che dei “valori non negoziabili”, non si può che partire dalla Dichiarazione Dominus Jesus, con cui negli anni giovannipaolini, quale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger avrebbe per molti tentato di frenare o imbrigliare il dialogo interreligioso, la grande stagione pensata e varata dal papa polacco. Fautore radicale del dialogo, padre Paolo Dall’Oglio notò che al punto otto di quella dichiarazione è scritto; “I libri sacri delle altre religioni, che di fatto alimentano e guidano l’esistenza dei loro seguaci, ricevono dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi presenti”. Qui, chiarisce padre Paolo, non si ha alcuna “ colonizzazione simbolica del mondo altrui”, si tratta invece “della comprensione dell’universalità a partire dalla propria esperienza di assoluto nel contesto della propria tradizione”. Sorprendente no?

Se si accetta questa lettura di un punto decisivo in un testo ovviamente fermo ma forse non chiuso come da tanti affermano, allora diventa meno difficile vedere la stessa mano in un altro atto assai importante e impossibile da dimenticare, questa volta compiuto da pontefice; la lettera ai cinesi: “Sono consapevole che la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese richiede tempo e presuppone la buona volontà delle due Parti. Dal canto suo, la Santa Sede rimane sempre aperta alle trattative, necessarie per superare il difficile momento presente. Questa pesante situazione di malintesi e di incomprensione, infatti, non giova né alle Autorità cinesi né alla Chiesa cattolica in Cina. Come ha dichiarato il Papa Giovanni Paolo II ricordando quanto padre Matteo Ricci scriveva da Pechino[11], “anche la Chiesa cattolica di oggi non chiede alla Cina e alle sue Autorità politiche nessun privilegio, ma unicamente di poter riprendere il dialogo, per giungere a una relazione intessuta di reciproco rispetto e di approfondita conoscenza”.

Lo sappia la Cina: la Chiesa cattolica ha il vivo proposito di offrire, ancora una volta, un umile e disinteressato servizio, in ciò che le compete, per il bene dei cattolici cinesi e per quello di tutti gli abitanti del Paese. Per quanto concerne poi i rapporti tra la comunità politica e la Chiesa in Cina, giova ricordare l’illuminante insegnamento del Concilio Vaticano II che dichiara: “La Chiesa, che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, non si identifica in nessun modo con la comunità politica e non è legata a nessun sistema politico, è ad un tempo segno e tutela della trascendenza della persona umana”.

Più chiaramente qui è emersa ai commentatori la chiave conciliare di un governo sin lí trattenuto dal timore di un conciliarismo discontinuo e quindi interessato all’apertura piena anche ai tradizionalisti lefebvriani. Questo bisogno ha portato al passo più critico, quando tolse la scomunica ai quattro vescovi ordinati non dal papa ma dal vescovo tradizionalista ribelle, monsignor Levebvre, che coincise temporalmente con dichiarazioni negazioniste dell’Olocausto da parte di uno dei quattro vescovi, monsignor Williamson.

Un dolore per il papa, come spiegò lui stesso: “Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si sia sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere. Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009. non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio”.

Da quegli ambienti sono venuti anche altri problemi, a dimostrazione della problematicità dell’intento.

Si può allora proseguire su questa strada ricordando la famosa Lectio Magistralis di Ratisbona, un altro problema ma che ha sviluppato in modo molto diverso. Qui si ritenne di incolpare Ratzinger per quanto detto sull’Islam non da lui ma dall’imperatore bizantino che citò. Indubbiamente non fu semplice, ma anche qui nel grande tumulto seguí una novità, la lettera di 138 teologi musulmani al papa che avrebbe offeso l’Islam e che ha consentito di riprendere il cammino comune; “La base per questa pace e comprensione esiste già. Fa parte dei principi veramente fondamentali di entrambe le fedi: l’amore per l’unico Dio e l’amore per il prossimo. Questi principi si trovano ribaditi più e più volte nei testi sacri dell’Islam e del Cristianesimo. Mentre Islam e Cristianesimo sono ovviamente religioni differenti – e non minimizziamo affatto le loro differenze formali – è chiaro che i Due Comandamenti più grandi sono un terreno comune e un collegamento fra il Corano, la Torah e il Nuovo Testamento”.

Il dialogo con il grande filosofo tedesco Jurgen Habermas completa questo articolato comparto su Ratzinger e il dialogo, ovviamente teso a saldare fede e ragione. La discussione fu ricchissima, Nicola Abate ha così concluso uno dei migliori articoli di ricostruzione del confronto: “Occorre un Intellectus quaerens fidem, per scongiurare una hybris della ragione. E una Fides quaerens intellectum, per evitare la hybris intesa come fondamentalismo religioso. È così raggiunta consapevolezza che ciò che ci accomuna è la fragilità, la finitezza, l’errare, l’ingannarsi, ma soprattutto l’aspirazione a costruire un mondo migliore”.

Ecco allora che si capisce perché ricordare Ratzinger è ricordare il Concilio. Un rapporto cominciato con gli stessi albori dell’avventura conciliare. Il modo migliore, più onesto, per tentare questa impresa, è farlo con lui, ricorrendo alle sue stesse parole. E’ molto importante infatti ricordare che poco dopo aver annunciato le sue dimissioni da Pontefice, Benedetto XVI incontrò i parroci ed il clero romano il 14 febbraio di quel 2013 dicendo subito al clero romano di non aver avuto il tempo di preparare un grande discorso, idoneo a simile circostanza, ma di voler parlare del Concilio, “come io l’ho visto”. Possiamo dire che è stata la sua ultima lezione da papa sul Concilio.

Il suo racconto partì dal 1961, quando il cardinale Siri organizzò una serie di conferenza sul Concilio, proponendo al cardinale di Colonia un tema preciso: “Il Concilio e il mondo del pensiero moderno”. Cosa accadde? Che il cardinale di Colonia, Frings, chiese al giovane professore Ratzinger di preparargli un progetto, che gli piacque, e lo lesse. “ Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo – mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio”.

Dai ricordi personali si passò ai ricordi conciliari, alle fasi conciliari, aperti dalla scelta dei padri di non farsi trovare un Concilio preordinato, ma di esserne protagonisti: “ Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari”. I lavori cominciarono con una guida, un gruppo trinante: “ I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio”.

A questo punto passò ai grandi temi in discussione all’inizio dell’assise, in particolare la riforma liturgica. E qui emerge chiaro il suo sì. Era giusto partire dalla riforma liturgica: “ Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione”. Al centro della ricostruzione emerse l’importanza della “intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo”.

Il punto successivo fu ovviamente quello dell’ecclesiologia, rimasta incompleta al Concilio Vaticano I per la sua interruzione a causa della guerra. Anche qui è molto interessante questo passaggio: “La Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola – forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa – per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo”.

Ma è il punto d’arrivo di questa ricostruzione ad avere grande rilievo: “Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario – che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa”.
La lezione ratzingeriana al clero romano ebbe ancora molti passaggi importanti, uno in particolare va menzionato per esteso e fedelmente al testo: non siamo più alla fase iniziale del Concilio, ma a quella successiva, importantissima però per la Chiesa e per il mondo. Papa Benedetto infatti parlò della genesi e dell’importanza dei documenti conciliari inerenti al dialogo.

“Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario. Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia. Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra Aetate”, connessi con “Gaudium et Spes”, sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo”.

La sua critica, come spiegò in conclusione, fu al Concilio dei media, cioè a certe semplificazioni, non al Concilio dei padri sinodali. La lezione ratzingeriana sul Concilio rimane un documento di grande attualità e importanza per chiunque abbia interesse a questi temi e anche alle sue implicazioni odierne.

Per chi sia interessato può essere letta nella sua interezza qui

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