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Sposarsi per finta. Quattro passi fra le nuvole compie 80 anni

Il 22 dicembre 1942 usciva “Quattro passi fra le nuvole” di Alessandro Blasetti. Uno dei film apripista del neorealismo italiano. Il bel soggetto di Cesare Zavattini, in difesa di una ragazza madre, introduceva un tema innovativo nel panorama del cinema mondiale. In piena guerra il film vince il Bafta dei critici inglesi per la regia. Hollywood, decenni dopo, lo omaggerà con il remake “Il profumo del mosto selvatico”

Carlo (il giovane e aitante Gino Cervi), marito di una scorbutica donna (acida con stile da “telefoni bianchi”: Giuditta Rissone), si alza ogni mattina presto, prepara il latte per la famiglia (la donna desidera dormire), esce, corre per prendere al volo un bus, siamo a Roma, poi alla stazione e via: è commesso viaggiatore. Vende cioccolatini. Scompartimenti di treni di seconda e terza classe affollati. Qui si mescolano compagni di viaggio pendolari e passeggeri di ogni strato sociale: impiegati, scontrose rinsecchite zitelle piccolo borghesi, pescatori, cacciatori. Pacchi, pacchetti, ceste, borse, involti. Un gran vociare, chi arriva primo occupa il posto… Molti sono in piedi nei corridoi. Ci si muove a fatica. Una ragazza, bella e giovane (l’acqua e sapone Adriana Benetti, dal leggero accento emiliano, aveva 23 anni) sembra affaticata. Carlo le cede il posto.

Giunti ad una stazione gran parte dei passeggeri scende e continua tramite una corriera che attraversa i paesi di campagna, non collegati dalla ferrovia, destinazione di diversi viaggiatori. L’autista della corriera, Antonio (Carlo Romano, più che un caratterista), ben conosciuto dai pendolari, oggi tarda a scendere in piazza, dove il bus, zeppo di passeggeri, attende. Cosa si aspetta? Lo sapremo dopo: quando dalla finestra di casa grida verso i viaggiatori in attesa ai loro posti: “È  maschio!”. Antonio è diventato padre. Si può partire.

La notizia del lieto evento è accolta con diverse reazioni da parte dei viaggiatori. La zitella non pare contenta di perder tempo “per un bambino”; il viaggiatore nervoso protesta per il ritardo (è il simpaticamente nevrotico Arturo Bragaglia); Carlo, invece, è contento del lieto evento, visto che ha due bambini. Maria, stretta tra il vociare e il protestare dei viaggiatori è silente. Dietro il suo sguardo limpido ma preoccupato, cosa nasconde?

La corriera prosegue, ma, all’improvviso, ecco le panne. Sosta forzata in piena campagna. Tutti scendono. Il gruppo si sparpaglia in gruppetti, in attesa che si riprenda la corsa. Intanto Carlo e Maria, che sulla corriera si sono scambiati qualche parola di circostanza, stanno facendo due chiacchiere. Lei gli è riconoscente perché in treno l’uomo le ha ceduto il posto. La ragazza stava per svenire. Carlo ora nota la tristezza di Maria. È giunto il momento di salutarsi. Maria indica, in una direzione, “la mia casa è dietro quella collina. Proseguo a piedi”. Ha in mano la sua valigia di cartone, nell’altra una borsetta. Mentre la corriera viene riparata più a valle, e tutti si chiamano a vicenda per ripartire, Carlo accompagna la ragazza per un altro pezzetto di strada tra gli ulivi. Le sta portando la valigia. Ma ecco che Maria si avvicina ad un albero, per sostenersi. Sta di nuovo svenendo, come in treno. Carlo le va vicino. Poco dopo è svelato il mistero di quegli occhi chiari e tristi. Ella è incinta, un giovane uomo l’ha lasciata. I suoi la “getteranno fuori di casa per il disonore”. Non vorrebbero mai una ragazza-madre. Lei, disperata, ha una idea: chiede a Carlo di accompagnarla a casa e di far finta, per un giorno, di essere suo marito…

Considerato che il cinema del ventennio fascista si era dibattuto tra il genere dei “telefoni bianchi” (La segretaria privata, L’impiegata di papà, Darò un milione Stasera alle undici, Batticuore, Una donna tra due mondi, ecc.), il film storico eroico, oggi diremmo con fine “sovranista” (La disfida di Barletta; Scipione l’Africano, Ettore Fieramosca, ecc.) e il film dichiaratamente di propaganda di regime, sia civile che di guerra (Camicie nere, Lo squadrone bianco, L’assedio dell’Alcazar, Bengasi, Odessa in fiamme, Il treno crociato, ecc.), quando uscì, nel dicembre del 1942, Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti fu una novità per un ritorno a storie vere.

I critici non allineati, nel poco margine di libertà a disposizione nelle recensioni, accolsero positivamente un film che parlava della vita di tutti i giorni senza enfasi e propaganda. Tra realismo e assurdo quotidiano: qui emergeva la vena della scrittura oggettivo-fantastica di Cesare Zavattini, che poi sarà il soggettista di gran parte del cinema neorealista. Un soggetto da suscitare, negli anni a seguire, due remake: Era venerdì 17 (1956) di Mario Soldati e Il profumo del mosto selvatico (1995) di Alfonso Arau.

La sceneggiatura di Aldo De Benedetti, Cesare Zavattini, Piero Tellini e lo stesso Blasetti, adotta alcuni stilemi finzionali suggeriti dal realismo sociale sovietico degli anni Trenta (Ejzenštejn e Pudovkin), e dal realismo poetico francese (Renoir, Duvivier). Gli storici del cinema, considerano l’opera una di quelle “che prepara la strada al Neorealismo, un film girato fuori dai teatri di posa, che portava lo spettatore nella vita quotidiana di persone normali” (Mario Verdone).

Le scene nell’affollato treno tra documentario e commedia è forse la parte più riuscita e musicale del racconto, con tagli che rimandano a Tony di Renoir. Soprattutto Blasetti, esperto nella direzione delle masse (v. Ettore Fieramosca) si mostra abile anche nei piccoli interni (il corridoio del treno; lo scompartimento di terza classe) nel legare insieme attori protagonisti, attori caratteristi e comparse. In alcuni momenti sa tirar fuori dall’attore, nel solco della commedia, inattesi movimenti plastici del volto o del corpo degni di un Frank Capra.

Il contrasto tra vita frenetica in città e i tempi lenti e ironicamente bucolici della campagna, apparentemente rilassante, tema oppositivo che attraversa tutta la nostra letteratura del decennio precedente, soprattutto nelle riviste letterarie (“stracittà” versus “strapaese”), non solo è un rimando culturale, ma diviene un simbolico prisma sociologico che Blasetti schizza senza ridondanze.

L’Italia era infelicemente finita dentro la tragedia della guerra. Molti mariti e figli combattevano su diversi fronti. Nella seconda metà del 1942, dopo alcuni successi militari dell’Asse, arrivano le prime dure sconfitte. Il 3 novembre le truppe di Rommel debbono ritirarsi verso il confine egiziano-libico, con i pochi superstiti tedeschi e italiani. Lo stesso a Stalingrado: dopo l’inutile assedio tedesco inizia la fulminea controffensiva sovietica e la disastrosa ritirata dal Don. Molti ragazzi e giovani padri non sarebbero ritornati a casa. Il 4 dicembre iniziano i bombardamenti degli Alleati in Italia: Napoli è la prima città a soffrire. Naturalmente la propaganda parlava di “vittoria in pochi mesi”. Ma l’antifascismo, seppur segretamente, si cementava sempre più nelle coscienze degli italiani.

Andare al cinema nel Natale del 1942, e seguire la storia del ritorno di una figlia, involontariamente “prodiga” nel dare fiducia (ad un uomo che non la meritava), poi rifiutata anche dal padre, un burbero proprietario terriero legato al codice d’onore, significava parlare al pubblico di chi soffriva nella vita civile, con un segreto rimando a chi stava rischiando la vita altrove.

In tempo di guerra e violenze, Quattro passi tra le nuvole, era una storia che sbocciava improvvisamente come un fiore d’autunno, alimentata dal venticello del ripensamento (del padre padrone) e dalla rugiada del perdono. Un film in anticipo sui tempi. Attuale. Scritto dal comunista Cesare Zavattini e diretto da Alessandro Blasetti, il regista di regime “con gli stivali”.

 

 

 


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