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Il nuovo impegno africano di Joe Biden

Appunti dal summit della Casa Bianca, con 49 capi di Stato africani. da cui emergono spinte positive al ruolo americano nel continente. Mai menzionata la Cina, elefante nella stanza delle conversazioni afro-americane. Il viaggio nel continente nel 2023

Gli Stati Uniti puntano tutto sul futuro dell’Africa”, ha detto il presidente statunitense, Joe Biden, tirando le somme dell’U.S.-Africa Leaders Summit, riunione monstre con 49 capi di Stato e di governo africani ospitata questa settimana a Washington.

Il summit è stato accompagnato da una serie di annunci pensati per dimostrare che Biden sta voltando pagina per quanto riguarda l’impegno americano nel continente, con nuovi piani di investimento economico per espandere i legami commerciali e iniziative diplomatiche per rafforzare i Paesi africani sulla scena mondiale.

I leader africani sono arrivati alla Casa Bianca con nuove consapevolezze e richieste chiare indirizzate all’ottenimento di risorse per sostenere le priorità della regione. C’è da sistemare quella che definiscono una transizione energetica “equa”, ossia vogliono rallentare la spinta occidentale contro gli idrocarburi, che rappresentano fonti di approvvigionamento e introito per molti Paesi africani. Vogliono facilitazioni commerciali sul mercato — in questo caso americano, ma anche europeo o orientale. C’è da gestire l’inflazione — soprattutto alimentare, anche collegata alla guerra russa in Ucraina — e cercare di rinegoziare il debito: misure che richiedono di mettere a disposizione risorse economiche.

Biden ha messo sul tavolo un annuncio di investimenti da 50 miliardi e la promessa di eleggere l’Unione Africana a membro permanente del G20. “Gli investimenti statunitensi sono essenziali”, spiega riservatamente un ex diplomatico di uno dei Paesi invitati, che però “per andare oltre” invita a leggere la riflessione scritta sul Washington Post da Eugene Robinson, columnist specializzato nell’analizzare le connessioni culturali dietro alle dinamiche di politica internazionale. Il pezzo ha un titolo eloquente: “Nella ‘nuova corsa per l’Africa’, gli africani devono venire per primi”. Una sorta di Africans First — da contrapporre al motto nazionalista trumpiano. Gran parte della storia di questo secolo sarà scritta in Africa, scrive Robinson, e il vertice di questa settimana “è un riconoscimento in ritardo di tale fatto”.

La determinazione degli Stati Uniti a recuperare l’influenza alleggerita in Africa sarà messa alla prova dei fatti nel prossimo breve futuro. Intanto il team di Biden si è accuratamente mosso per evitare di tirare in ballo la Cina — attore diventato dominante nel continente — nelle dichiarazioni pubbliche (meno in quelle private, per le informazioni disponibili). Pechino non è stata menzionata nel discorso del presidente Biden al vertice o nell’ordine del giorno. Lo scopo è evitare che l’interesse all’Africa sembri mosso dalla contrapposizione tra potenze.

Ma la competizione tra Stati Uniti e Cina ribolliva sotto la superficie. Da molti punti di vista, gli Stati Uniti sono ancora indietro rispetto alla Cina nell’impegno con l’Africa, e non è una cosa che il primo vertice con i leader africani in otto anni possa compensare da solo, fa notare la “Siituation Report” di Foreign Policy. “Se presentarsi è metà della battaglia, Pechino ha una marcia in più rispetto a Washington”, scrivono i commentatori nella newsletter.

La Cina ha scelto differentemente ed è intervenuta nel dibattito ricordando i vari impegni presi (mantenuti?) con i Paesi africani — decisi anche attraverso gli otto vertici “Africa+1” organizzati sotto la guida di Xi Jinping. Per spingere la dialettica Pechino è tornata all’uso (semi-aggressivo) dei diplomatici.

“Le relazioni Cina-Africa sono il fondamento della politica estera cinese”, ha detto l’ambasciatore cinese a Washington, Qin Gang, durante una conferenza a margine del vertice organizzato dalla Casa Bianca. Qin ha osservato che negli ultimi due decenni, il ministro degli Esteri cinese ha seguito la tradizione di visitare i Paesi africani all’inizio di ogni anno, una tradizione con la quale gli Stati Uniti non possono pretendere di competere, a suo dire.

Gli investimenti della Cina in Africa sono circa quattro volte quelli degli Stati Uniti, idem per gli scambi commerciali. L’impegno economico annunciato dall’amministrazione Biden è importante, anche se molti di quei 55 miliardi sembrano provenire da progetti già annunciati, tra cui programmi sulla sicurezza sanitaria, sul cambiamento climatico e sul commercio.

Biden non ha ancora visitato l’Africa subsahariana in qualità di presidente, ma ha in programma una visita multinazionale nel continente il prossimo anno. Su questo si porterà in vantaggio su Xi, che difficilmente si muoverà in Africa a breve (anche a causa dei nuovi picchi epidemici che la Cina sta subendo). Biden però non ha programmato incontri bilaterali formali con ciascun leader africano durante il vertice di questa settimana, cosa che ha fatto storcere un po’ il naso — sebbene senza uscite pubbliche — ad alcuni dei leader che hanno attraversato l’Atlantico per avere la rara possibilità di incontrare, anche solo per una photo-opportunity, il presidente degli Stati Uniti.

Inoltre, parte dei messaggi positivi che l’amministrazione Biden ha cercato di lanciare per il vertice sono stati in qualche modo oscurati da alcune critiche sulla lista degli invitati. Polemiche sul fatto che diversi autoritari e leader di governi accusati di crimini contro l’umanità erano tra gli ospitati. È una conseguenza della pressione che l’amministrazione Biden ha messo in campo, a livello internazionale, sul tema dei diritti. Tuttavia Washington ha accettato di scendere (o salire) al pragmatismo — e su questo la Cina, col suo principio di non interferenza, può dare lezioni.

I sostenitori dei diritti umani hanno criticato la decisione di Biden di invitare leader africani autocratici, tra cui il più longevo del mondo, Teodoro Obiang della Guinea Equatoriale, e Abiy Ahmed dell’Etiopia, le cui forze governative sono accusate di diffusi crimini di guerra nel sanguinario conflitto del Tigray. Col primo c’è in ballo un dialogo serrato anche per evitare che Malabo accetti di ospitare una base territoriale cinese nell’Atlantico (di cui si parla da un po’ di tempo). Con Abiy c’è da cercare di avviare la gestione di un deconflicting che possa iniziare a sistemare una delle più gravi crisi umanitarie del momento.


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