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Via della Seta. Italia unico Paese G7 ad aderire, primo a uscire? Scrive Ghiretti (Ecfr)

Di Francesca Ghiretti

L’approccio “Italy First” di Roma nei confronti della Cina non comprometterà necessariamente la strategia europea, anzi potrebbe addirittura rafforzarla. Il commento di Francesca Ghiretti, analista del Mercator Institute for China Studies e visiting fellow dello European Council on Foreign Relations nel progetto “European Caucus on China”

Nel corso della campagna elettorale italiana di quest’anno, il nuovo presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha espresso una posizione fortemente scettica nei confronti della Cina. In modo insolito per un candidato alla carica di premier, ha rilasciato un’intervista alla Central News Agency di Taiwan. Ha inoltre promesso una revisione del programma di investimenti infrastrutturali globali della Cina, la Belt and Road Initiative (BRI), per la quale l’Italia ha firmato un memorandum d’intesa nel 2019 – una decisione che considera un “grande errore”.

La coalizione di governo italiana è composta da Fratelli d’Italia, partito di destra di Meloni, dalla Lega di Matteo Salvini e da Forza Italia di Silvio Berlusconi. I tre partiti hanno alle spalle una serie di posizioni diverse nei confronti della Cina. Al governo, hanno amplificato le loro narrazioni (a favore o contro la Cina), ma poi non sono riusciti a dare seguito alle loro azioni, che tendevano a essere molto più in linea con l’approccio di altri Paesi europei. Fratelli d’Italia è ora al governo per la prima volta, ma per il momento sembra agire in modo molto più moderato di quanto potesse sembrare in campagna elettorale.

I primi mesi del nuovo governo hanno mostrato un alto livello di continuità sulla Cina tra il governo Meloni e quello del suo predecessore. Mario Draghi aveva adottato una posizione in linea con la valutazione dell’Unione europea sul Paese come “concorrente economico e rivale sistemico”. Per esempio, aveva bloccato o impedito l’acquisizione di imprese italiane da parte di società cinesi e ha rafforzato l’allineamento transatlantico.

Meloni e Xi Jinping si sono anche incontrati a margine del G20 di Bali quest’anno, ma questo vuol dire poco per l’approccio politico generale dell’Italia. L’incontro è stato più amichevole di quanto ci si potesse aspettare per un leader europeo che solo poche settimane prima aveva condannato a gran voce le azioni cinesi nello Stretto di Taiwan. Meloni ha anche accettato l’invito di Xi a recarsi a Pechino. Ma anche questo non è un segnale di avvicinamento dell’Italia alla Cina, bensì di ristabilire un tipo di relazione diplomatica ordinario. Le visite in Cina non sono certo un’eccezione per i leader europei: poco prima dell’incontro di Bali, il cancelliere tedesco Olaf Scholz è stato il primo leader del G7 a recarsi in Cina dopo lo scoppio del Covid-19.

Lo stesso vale per un’altra parte della coalizione della Meloni. Il nuovo ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è un esponente di Forza Italia e proviene da un ambiente scettico nei confronti della Cina. Nel 2019, da presidente del Parlamento europeo, Tajani si è opposto alla decisione dell’Italia di firmare il memorandum d’intesa sulla BRI. Poco dopo il G20, Tajani ha avuto una telefonata con il ministro degli Esteri cinese, il cui contenuto era costituito dalle solite formule diplomatiche sul rafforzamento delle relazioni economiche, ma poco più. L’era dei grandi accordi e delle cerimonie di firma ad alto livello è finita da tempo. Allo stesso modo, ci sono poche indicazioni che il governo italiano farà qualcosa per ostacolare l’esportazione di prodotti italiani in Cina.

La politica della Lega sulla Cina ha avuto alti e bassi, e poi di nuovo alti. È stato un governo della Lega in coalizione con il populista Movimento 5 Stelle a mettere la firma sulla BRI nel 2019 durante una visita di Stato concessa a Xi. Tuttavia, poche settimane prima della firma, alla fine del 2018, la Lega ha deciso di prendere le distanze dalla BRI su pressione di Washington. Di conseguenza, Salvini non ha partecipato agli eventi ufficiali durante la visita di Stato e ha pubblicamente lamentato il fatto che la Cina non sia un’economia di mercato. Nel luglio 2020 ha manifestato davanti all’ambasciata cinese a Roma a sostegno della libertà dei cittadini di Hong Kong. Ma l’anno successivo si è recato in visita all’ambasciatore cinese a Roma in qualità di leader di partito, ufficialmente per discutere della situazione in Afghanistan. A oggi, la posizione della Lega sulla Cina rimane poco chiara; è probabile che segua Fratelli d’Italia sulla politica cinese.

L’Italia è stato il primo e unico Paese del G7 ad aderire alla BRI. Con la revisione promessa da Meloni, potrebbe essere il primo Paese a lasciare l’iniziativa; questo potrebbe innescare un processo che porti altri Stati europei a fare lo stesso. Nel 2021, la Lituania è stata la prima ad abbandonare il formato di cooperazione “17+1” tra la Cina e i Paesi dell’Europa centrale e orientale. Altri hanno poi fatto lo stesso.

Nel frattempo, rimane il problema di come gestire gli investimenti cinesi nelle imprese italiane. Bloccare questi accordi è un’occasione da non sottovalutare per il nuovo governo. Dopo tutto, l’approccio di Draghi è stato altamente protettivo nei confronti degli asset italiani, come quando ha bloccato l’acquisizione da parte di Shenzhen Investment Holdings dell’impresa italiana di semiconduttori Lpe. È improbabile che il nuovo presidente del Consiglio nazionalista italiano sia contrario a fare scelte di questo tipo. In un discorso al Senato, Meloni si è esplicitamente opposta agli investimenti predatori nell’industria italiana di importanza strategica. Il suo ministro delle imprese e del made in Italy (precedentemente noto come ministro dello Sviluppo economico) Adolfo Urso, ha già dichiarato l’intenzione del governo di rafforzare ulteriormente il meccanismo di screening italiano per gli IDE, includendo nuovi aiuti statali per le imprese italiane colpite dalla decisione di bloccare alcune transazioni. Ha inoltre lasciato intendere che il governo potrebbe rivedere gli accordi già conclusi che coinvolgono investimenti cinesi.

A questo proposito, il governo italiano potrebbe contribuire a rafforzare la posizione dell’Unione europea nei confronti della Cina. L’unica avvertenza per i responsabili politici dell’Unione europea è che la natura nazionalista del governo significa che non lo farà in modo da cedere pubblicamente la sovranità o i poteri decisionali alle istituzioni dell’Unione europea. Per esempio, è probabile che l’Italia sia favorevole a meccanismi europei più forti per lo screening degli investimenti, ma non ad accordare maggiori poteri alla Commissione europea.

Nella politica estera italiana, la Cina rimarrà in secondo piano rispetto all’Unione europea, agli Stati Uniti e ai Paesi amici. Resta da vedere se l’Italia farà i conti con la Cina, soprattutto se effettuerà davvero una revisione anticipata della sua partecipazione alla BRI. Ma se il governo Meloni si atterrà alle posizioni precedentemente espresse sulla Cina, l’Italia potrebbe contribuire più attivamente alla definizione di una strategia per la Cina che dia priorità agli interessi nazionali e anche a quelli dell’Unione europea.

 

Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre sul sito dello European Council on Foreign Relations (traduzione di Formiche.net)

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