I Paesi del Golfo sono lanciati verso un rinnovato desiderio di sviluppo (su cui si basano i patti sociali di diversi regni). La Cina di Xi, nonostante le difficoltà attuali, è un interlocutore che crea interesse, in modo non necessariamente ostile agli Usa
Il leader cinese Xi Jinping arriva nel Golfo (domani 6 dicembre) in un momento piuttosto delicato dei rapporti tra gli Stati Uniti e la principale potenza regionale alleata, l’Arabia Saudita. Ma anche la Cina non vive un buon periodo: presa dalla ripartenza strategica post-pandemia, distratta dall’evoluzione del pivoting asiatico di Washington, Pechino ha sopravvalutato la capacità dei suoi cittadini di assorbire le compressioni alle libertà individuali ed è finita vittima di una preoccupante (perché complessa e non facilmente risolvibile) serie di proteste legate alle restrizioni delle misure anti-epidemiche della Zero Covid policy.
Xi si presenta rafforzato dal recente ottenimento del terzo, storico mandato affidatogli dal Partito Comunista Cinese — che è ormai emanazione del leader, hub del controllo totale che Xi esercita sul Paese. Se questo senso di forza totale è una dote particolarmente apprezzata per gli interlocutori che troverà a Riad come ad Abu Dhabi, le debolezze mostrate con la pandemia e i conseguenti rallentamenti economici cinesi sono meno attraenti per il Golfo.
Detto con un dato: Goldman Sachs ha abbassato le previsioni sulla domanda di petrolio in Cina (1,2 miliardi nel quarto trimestre) e prevede una piena riapertura dell’economia cinese non prima della metà del 2023 (ma i tassi di produzione/consumo potrebbero non necessariamente riprendere immediatamente, anzi al contrario). E per Paesi che si sono visti sorpassare in testa ai fornitori dagli extra sconti con cui la Russia ha dovuto vendere il suo petrolio in Cina (per cercare di bypassare le misure occidentali legate all’aggressione ucraina), non sono buoni segnali.
Ma nel Golfo rivitalizzato dalle nuove e più ricche commesse — anche queste legate allo scombussolamento del mercato energetico prodotto dall’invasione russa — il desiderio di attivarsi con tutti gli interlocutori possibili, e su tutti i dossier raggiungibili, guida la proiezione internazionale che Paesi come l’Arabia Saudita (o gli Emirati Arabi Uniti) intendono darsi.
Il de facto sovrano saudita, Mohammed bin Salman, ha già sfidato le ire statunitensi quando ha spinto la decisione dell’Opec+ di tagliare le produzioni di petrolio per far rialzare i prezzi del greggio. La scelta, confermata anche nella riunione del 5 dicembre, secondo Washington era innanzitutto “immotivata” (significa dire contraria agli interessi americani) e poi amichevole nei confronti della Russia — che col rialzo dei prezzi troverà sollievo in mezzo alle sanzioni e al price cap. Ma bin Salman guida un Paese in crescita e vede nella possibilità/capacità di compiere scelte sovrane un’opportunità olistica di sviluppo.
Sotto quest’ottica, la relazione con la Cina non è né particolare né necessariamente avversa agli Usa, tanto meno è nuova — e nuove non sono le preoccupazioni americane su questi avvicinamenti. Per bin Salman, che pensa a sé stesso come leader del mondo arabo e vede adesso la possibilità di dare seguito a questa ambizione, riunire gli altri governanti di tutto il Medio Oriente e del Nord Africa per un vertice arabo-cinese durante la visita del presidente Xi, diventa un’occasione per diventare una sorta di primus inter pares regionale nel rapporto con Pechino (sebbene c’è Abu Dhabi molto ben piazzata).
Riad sta lavorando in base a calcoli strategici che prevedono la necessità di accogliere Pechino, che è ormai un partner economico indispensabile, ma anche di confezionare per il suo regno una posizione di leadership. Sebbene gli Stati Uniti rimangano il partner d’elezione per gli Stati del Golfo, da cui dipendono per la loro sicurezza, l’Arabia Saudita sta tracciando una politica estera al servizio della sua trasformazione economica e politica nazionale, dunque anche internazionale. C’è sicuramente il rischio che l’espansione delle relazioni con la Cina si ritorca contro ai sauditi e porti a una (ulteriore) spaccatura nelle relazioni con gli americani, ma bin Salman è ben consapevole dei rischi e sa che non sta certo perseguendo determinati obiettivi per dispetto agli Usa.
Xi sta al gioco. Il cinese riceverà un’accoglienza sontuosa, simile a quella riservata ai tempi al presidente Donald Trump quando visitò il regno nel 2017, fanno sapere diplomatici regionali alla Reuters. Un atteggiamento che potrebbe essere (questo sì volutamente?) in contrasto con la visita di Joe Biden a luglio, che aveva l’obiettivo di ricucire i legami con Riad e che dal fronte saudita non è stata percepita troppo come riparatrice. La delegazione cinese dovrebbe firmare decine di accordi con l’Arabia Saudita e altri Stati arabi in materia di energia, sicurezza e investimenti, come hanno riferito i diplomatici alla Reuters.
E questa dei deal è una lingua ben compresa dagli interlocutori del Golfo, sebbene con quelle perplessità sul futuro a breve/medio termine cinese. Il principe bin Salman è concentrato sulla realizzazione del suo piano di diversificazione “Vision 2030” studiato per svincolare l’economia dal petrolio attraverso la creazione di nuove industrie, tra cui la produzione di automobili e armi, e la logistica. Un piano possibile anche grazie agli extra profitti permessi dal petrolio, va detto, e che richiede la capacità di attrarre investimenti dall’estero.
Il regno sta investendo molto in nuove infrastrutture e megaprogetti nel turismo e in iniziative come la zona NEOM (valore 500 miliardi di dollari), dove si creano ampi spazi per le imprese edili cinesi al momento più ferme. E la relazione con la Cina serve a dimostrare che il regno è importante per molte potenze globali. Un messaggio diretto ai suoi concittadini — con cui ha stretto un nuovo patto sociale basato sulla promessa di un eccezionale sviluppo in cambio della fiducia nella propria leadership (percorso non banale, come dimostrano le faide interne viste pochi anni fa).
Il direttore delle comunicazioni strategiche del Consiglio per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato nei giorni scorsi durante un briefing con i giornalisti che Washington vuole assicurarsi che le relazioni “strategiche” con Riad funzionino “nel nostro migliore interesse”. I funzionari statunitensi però non commentano ancora pubblicamente il rinnovamento dei rapporti bilaterali tra Arabia Saudita e Cina che seguirà la visita di Xi.
In passato Washington ha espresso più volte preoccupazione per l’uso da parte dei Paesi del Golfo della tecnologia cinese 5G (con gli Usa hanno coinvolto Riad in un nuovo progetto Open Ran) e per gli investimenti cinesi in infrastrutture sensibili come i porti — gli Emirati Arabi Uniti hanno bloccato un progetto portuale cinese a causa delle preoccupazioni degli Stati Uniti. Inoltre Riad e Abu Dhabi stanno acquistando attrezzature militari cinesi e un’azienda saudita ha firmato un accordo con una società cinese per produrre droni armati nel regno.
Sebbene i legami sauditi con la Cina sembrino crescere “molto più rapidamente” rispetto a quelli con gli Stati Uniti, le relazioni effettive non sono paragonabili, ha spiegato Jon Alterman, direttore del programma sul Medio Oriente presso il Center for Strategic and International Studies di Washington. “Le relazioni con la Cina impallidiscono rispetto a quelle con gli Stati Uniti sia in termini di complessità che di intimità”.