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Yellen in Africa a parlare anche di debito (e dunque di Cina)

La segretaria al Tesoro degli Stati Uniti si recherà in Africa a gennaio nel mezzo di una più ampia spinta per contrastare l’influenza della Cina nei Paesi in via di sviluppo. Intanto Chatam House pubblica un report che legge da un altro lato la questione del debito cinese nel continente: se fosse una trappola per Pechino?

Gli ingenti prestiti cinesi all’Africa hanno creato un dilemma per cui Pechino faticherà a recuperare il proprio denaro mantenendo la propria immagine di amico dei Paesi in via di sviluppo, spiega un report analitico di Chatam House. Il think tank britannico è un’istituzione e quanto scrive è destinato a finire anche sui tavoli di chi decide la destinazione di investimenti (privati) importanti e che potrebbe trovare in queste analisi spunti (non positive) per gestire future collaborazioni con aziende cinesi nell’ambiente terzo africano.

Il debito estero dell’Africa è quintuplicato, raggiungendo i 696 miliardi di dollari, tra il 2000 e il 2020, e i prestatori cinesi ne rappresentano il 12% (il restante 88% è parte occidentale, asiatico-occidentale, indiana, mediorientale).

Sebbene da anni i prestiti cinesi all’Africa siano stati criticati dagli Stati Uniti e da altre nazioni europee — in quanto opachi e finalizzati al sequestro dei beni africani offerti in garanzia, la cosiddetta “trappola del debito” — per Chatam House c’è da rivedere in parte queste considerazioni.

“Lungi dall’essere una strategia sofisticata per espropriare i beni africani, i prestiti cinesi sregolati nelle fasi iniziali potrebbero aver creato una trappola del debito per la Cina stessa, coinvolgendola profondamente con partner africani ostinati e sempre più assertivi”, hanno scritto i ricercatori inglesi.

Quanto accade è anche frutto di una maggiore consapevolezza da parte degli africani. I Paesi del continente stanno aumentando le proprie capacità politiche e culturali, e vengono da “anni di debito” (quel  88% extra cinese). Sono ormai consci dei rischi e li valutano in funzione delle proprie necessità. Appoggiarsi alle potenze ha i suoi problemi, ma per diversi governanti locali sono rischi da correre perché — mentre lavorano per restare al potere — intendono soddisfare i desideri di sviluppo delle proprie collettività.

La Cina è un grande creditore dello Zambia, ad esempio, che ha fatto default sul suo debito. Ha inoltre concesso prestiti ad altre nazioni africane che stanno lottando per far fronte ai loro obblighi, tra cui Angola, Etiopia, Kenya e Repubblica del Congo. Molto di questo debito è connesso a opere infrastrutturali che sono centrali lo sviluppo della connettività intra-nazionale e interregionale.

Opere che sono parte del desiderio di sviluppo di quei Paesi, su cui la Cina ha messo le mani (molti progetti sono portati avanti da aziende cinesi) con interesse. Un interesse — l’eventuale controllo di certe infrastrutture per sopperire al mancato ritorno del debito — che gli africani in molti casi hanno messo in conto.

Secondo Amaka Anku, analista per l’Africa di Eurasia Group, è controverso che Paesi come gli Stati Uniti se la prendono direttamente con la Cina denunciando che “i cinesi stanno usando una trappola del debito”. “Molti responsabili politici africani non hanno gradito”, spiega Anku, perché “è molto paternalistica. Era molto simile a un ‘ehi, ragazzi, dovete essere proprio stupidi’ per aver stipulato questo tipo di accordo con la Cina”.

L’amministrazione Biden, che la scorsa settimana ha organizzato uno scenografico summit a Washington per rilanciare le relazioni con i leader africani, sta cercando di andare oltre queste che erano le visioni che hanno contraddistinto l’impegno (scarso) della precedente presidenza sull’Africa. La Cina non ha un approccio troppo politico alle questioni del continente, Pechino ha costruito il proprio ruolo sulla base di un’equazione semplice: diteci cosa vi serve e noi cerchiamo di darvelo.

Molte delle richieste dirette riguardano e hanno riguardo proprio quelle opere infrastrutturali (tassello cruciale per lo sviluppo economico, e dunque sociale) e la Cina ha una macchina operatrice in grado di soddisfare certe necessità. Un’attività che sta cercando di spingere anche l’Unione europea — adesso con il Global Gateway — e su cui annuncia di mettersi più seriamente al lavoro Washington.

Usa e Ue hanno però la possibilità di avvolgere la loro proposta di un framework più ampio, che va dall’implementazione delle connessioni people-to-people agli investimenti, alle relazioni sul privato alla sicurezza. I temi sono concatenati: eventi come il recente colpo di stato in Burkina Faso sono conseguenza dell’assenza di un ambiente securitario vivibile, non del desiderio di quei cittadini di essere governati da un autocrate.

È un altro layer di consapevolezza che spesso sfugge analizzando certe dinamiche con gli occhi occidentali. I Paesi africani non hanno la sensazione che Washington sia generalmente interessata alla regione al di là della sua strategia con la Cina e contro la Russia — che ha usato come porta di penetrazione proprio il degradamento del contesto securitario in alcuni Paesi come il Burkina Faso appunto, o il Mali.

La presidenza Biden sta cercando di allontanarsi da questo punto, affermando che la strategia statunitense riguarda esclusivamente le relazioni “con” l’Africa, come ha detto il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan. Ma c’è ancora la sensazione che agli Stati Uniti interessi solo proiettare i propri valori e la propria influenza.

“A dire il vero, la politica estera di ogni Paese consiste nel proiettare valori e interessi, ma si tratta di capire come lo si fa. E la domanda per Biden è: la trasformazione economica dell’Africa sostiene questo obiettivo? Per esempio, gli Stati Uniti possono fare progressi nella loro battaglia con la Cina avendo nuovi mercati di esportazione in Africa? O si tratterà solo di contrastare l’influenza cinese qui?”, spiega Anku.

Le conseguenze economiche della pandemia e dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia hanno messo in difficoltà l’Africa, anche minando la capacità di molte nazioni africane di onorare i propri debiti sovrani. Secondo i criteri della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, il continente si sta dirigendo verso una crisi di rimborso, con 22 nazioni su 54 a rischio di cosiddetta sofferenza del debito. Tra questi la Cina è esposta con Angola (42,6 miliardi di dollari), Etiopia (13,7 miliardi), Zambia (9,8), Kenya (9,2). La Cina è stata criticata per la sua percepita mancanza di impegno nello sforzo globale di ridurre gli oneri del debito dei Paesi in via di sviluppo, e sta già cercando di correre ai ripari.

Anche perché nelle prossime settimane la segretaria al Tesoro statunitense, Janet Yellen, sarà impegnata in una visita africana che anticiperà quella del presidente Joe Biden. Sul tavolo temi di carattere economico-finanziario e investimenti, Yellen che ha detto più volte che Pechino è diventato il più grande ostacolo al progresso. Con lei ci sarà probabilmente Jose Fernandez, sottosegretario per la crescita economica, l’energia e l’ambiente presso il dipartimento di Stato americano, ha dichiarato in un’intervista della scorsa settimana che la Cina deve essere più trasparente riguardo al debito delle nazioni africane.

Tuttavia, preoccupate dall’incapacità di molte nazioni di rimborsare i loro prestiti, negli ultimi anni le istituzioni cinesi hanno ridotto l’ammontare del credito che estendono all’Africa. I nuovi prestiti cinesi ai governi africani sono scesi dal picco del 2016 di 28,4 miliardi di dollari a 8,2 miliardi nel 2019 e ad appena 1,9 miliardi nel 2020, durante la pandemia di coronavirus, secondo le stime analizzate da Chatam House.

“L’approccio della Cina al debito africano è un cambiamento dinamico, con modelli di prestiti cinesi legati alle infrastrutture in Africa che passano da una sregolatezza sostenuta dalle risorse a un più calcolato processo decisionale commerciale o geostrategico”, scrivono i ricercatori inglesi nel report — che si intitola “La risposta alla sofferenza del debito in Africa e il ruolo della Cina”.

“L’immagine della Cina come prestatore predatore che cerca di espropriare le risorse economiche africane non regge nella maggior parte dei casi”.

È un’analisi che ruota sulla complessità di certe dinamiche — totalmente in atto in queste ultime evoluzioni che riguardano il continente e l’attenzione delle potenze. Per esempio, ci sono svariate indicazioni che la Cina possa aver prestato denaro a Gibuti, nazione strategica nel Corno d’Africa, per assicurarsi un’influenza politica. Tra il 2012 e il 2020 la Cina ha fornito a Gibuti, il cui prodotto interno lordo annuale ammonta a circa due ore di produzione economica cinese, 1,4 miliardi di dollari in investimenti e prestiti per infrastrutture. La Cina ha anche stabilito un avamposto militare a soli sei chilometri da una base statunitense a Gibuti, che si trova su Bab el Mandeb, uno stretto attraverso il quale passa circa il 30% del traffico marittimo mondiale diretto verso il Mar Rosso e il Canale di Suez.

Per Chatam House Gibuti offre un chiaro esempio della complicazione tra la concessione di prestiti ad alcuni Paesi africani che probabilmente faranno fatica a rimborsarli in futuro e l’imperativo geostrategico di costruire e mantenere la propria influenza: “Gibuti è in difficoltà sul fronte del debito, ma il Paese potrebbe essere troppo importante per la Cina per permettergli di andare in default”.

Secondo i ricercatori, la Cina si trova ora di fronte al dilemma se esercitare i propri diritti per ottenere i pagamenti o adottare un approccio più accomodante per preservare le proprie relazioni politiche. Anche per differenziare l’approccio da quello occidentale (qui leggasi americano). Se l’istinto iniziale della Cina è stato quello di cercare di affrontare le questioni relative al rimborso del debito a livello bilaterale, ora Pechino è sempre più coinvolta nei complessi colloqui multilaterali e, davanti a uno scenario mutato anche dalle consapevolezze acquisite dagli africani, dovrà continuare a farlo se vuole avere migliori possibilità di essere rimborsata.

“Alla fine, la Cina potrebbe ritenere di dover diventare più energica nell’estorcere il pagamento attraverso azioni unilaterali”, ha affermato Chatham House. Ma “questo sarebbe particolarmente dannoso se la Cina ricorresse all’appropriazione di beni significativi come porti, ferrovie o reti elettriche in risposta ai default”, perché ciò le imporrebbe — adesso più che mai — costi strategici e politici.


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