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Il 2023? Non sarà stagflazione ma meno crescita e inflazione. Scrive Zecchini

Non sorprende che al primo indebolirsi del trend ascendente dei prezzi riecheggino in Italia e nei Paesi indebitati voci che invocano un atteggiamento più accomodante della Bce rispetto all’annunciato prolungamento della restrizione monetaria. Da ultimo, si è pronunciato in tal senso il presidente dell’Abi in un’intervista odierna in un quotidiano romano. L’analisi di Salvatore Zecchini

Gli ultimi dati sull’inflazione italiana e nell’eurozona nel mese di dicembre e nell’anno trascorso non possono sorprendere chi da metà anno aveva messo in guardia dal rischio di ben più forti tensioni dei prezzi rispetto a quanto pronosticato dalla Bce sulla base di modelli predittivi, che non colgono le rotture intervenute nelle linee di tendenza a seguito di eventi straordinari, come la pandemia e la guerra in Europa. Non sorprende nemmeno che al primo indebolirsi del trend ascendente dei prezzi riecheggino in Italia e nei Paesi indebitati voci che invocano un atteggiamento più accomodante della Bce rispetto all’annunciato prolungamento della restrizione monetaria. Da ultimo, si è pronunciato in tal senso il presidente dell’Abi in un’intervista odierna in un quotidiano romano.

Un simile atteggiamento sarebbe il miglior pretesto per alimentare le spinte sui prezzi e per il radicamento delle attese inflazionistiche tra imprese e famiglie con ripercussioni peggiori. Un pretesto che trae spunto dal ripiegamento del ritmo di ascesa dei prezzi nel dicembre scorso. L’aumento dell’indice dei prezzi al consumo è risultato più contenuto (0,3%) rispetto al mese precedente (0,5%), ma pur sempre troppo elevato rispetto a un anno prima (11,6%) perché si possa parlare di un avvicinamento alla stabilità monetaria. Anche il tasso medio annuo all’8,1% è ben lontano da un livello accettabile di erosione del potere di acquisto, oltre che dall’obiettivo attorno al 2% annuo assunto dalla Bce.

Né attenua l’alto potenziale inflazionistico accumulato nell’anno notare che i principali fattori a monte sono rappresentati dai costi energetici e dagli alimenti lavorati. In realtà, i primi risentono della minore domanda dovuta al mite clima autunnale e al risparmio d’energia, oltre che delle misure temporanee adottate per limitare il rincaro dell’energia, tutti fattori che potrebbero scomparire repentinamente in presenza di un peggioramento del clima invernale, della eliminazione delle misure di contenimento, e anche di maggiori tensioni per la guerra in Ucraina e del programmato rafforzamento dell’embargo sulle forniture della Russia. Si è già visto in questi giorni che la fine della riduzione delle accise sui carburanti, ne ha determinato l’immediato rincaro. I costi dei prodotti alimentari, d’altronde, risultano per natura relativamente instabili, essendo influenzati da variabili climatiche per quelli primari e dai rialzi dei costi di produzione per quelli trattati.

Altre considerazioni inducono, altresì, a guardare con molta cautela i dati di dicembre per trarne rassicurazioni che la restrizione monetaria attuata dalla Bce col rialzo dei tassi d’interesse guida e le altre misure quantitative consente un rallentamento nei prossimi mesi.
Il confronto con l’inflazione nei maggiori partner dell’Italia è motivo di attenzione. Dopo mesi in cui l’andamento dei prezzi nel Paese si collocava su una traiettoria più bassa di quella della Germania e della media dell’eurozona, da un paio di mesi la supera abbondantemente. L’indice armonizzato Ipca presenta una dinamica relativamente più tesa con un 8,7% medio per il 2022, che va anche oltre quello non armonizzato pari a 8,1%. In Germania l’ascesa dell’Ipca si è fermata al 7,9% in media annua. In Francia e Spagna l’andamento è anche più contenuto collocandosi tra il 5% ed il 6% annuo, sebbene questo sia il risultato di politiche volte a imporre un tetto all’ascesa dei rincari dell’energia. Se la politica monetaria comune tiene conto dell’inflazione in tutta l’area e non può adattarsi alle esigenze di alcuni paesi piuttosto che dell’intera area, è compito dell’Italia mettere in atto misure per limitare i focolai interni d’inflazione e fare leva sulla comune restrizione monetaria in atto senza chiederne un rallentamento nelle prossime riunioni del Consiglio della Bce.

Indubbiamente sulla base del confronto tra paesi delle inflazioni al consumo non si può valutare la perdita di competitività esterna di un paese, perché rilevano i prezzi all’esportazione e i costi del lavoro al netto della variazione della sua produttività. Ma questi dati non sono ancora disponibili, quindi, non si può che ipotizzare che a monte dell’inflazione al consumo vi sia stata quella ben più tesa dei costi di produzione, con la conseguenza di una perdita di competitività del sistema. Vi è piuttosto evidenza nelle statistiche degli scambi con l’estero che i prezzi all’export, benché in rialzo, non sono aumentati tanto quanto quelli al consumo e alla produzione. Implicitamente, le imprese hanno accettato in questa fase la compressione dei loro margini in attesa di poterli ripristinare in un secondo tempo per adeguarsi alla dinamica della concorrenza estera. Nel caso in cui i prezzi sui mercati esteri dovessero mantenersi nel tempo su traiettorie più basse di quelle italiane, le nostre imprese esportatrici dovrebbero affrontare maggiori difficoltà, in quanto sarebbero pressate dall’aumento dei costi interni che non riuscirebbero a riversare sui prezzi all’export.

Che la fiammata dei prezzi in Italia non sia in fase di spegnimento lo dimostrano anche le dinamiche dei prezzi dei servizi e della inflazione di fondo (core inflation). A differenza dei prezzi dei beni che a dicembre deceleravano, quelli dei servizi hanno continuato ad avanzare moderatamente e a ridurre il distacco dall’impennata dei primi. Il divario tuttavia rimane notevole, a 12,9 punti percentuali a distanza di un anno, ovvero tra i due comparti il 17% contro 4,1%. Un simile peggioramento dei termini di scambio del settore non sembra sostenibile se non in presenza di un considerevole deficit di domanda, che non permette di scaricare in maggior misura i rincari subiti dal lato dei costi energetici e del lavoro. In effetti, laddove la domanda è risultata in grande ripresa come nel turismo, nelle attività ricreative e culturali, e nei trasporti il rialzo dei prezzi è stato superiore alla media del comparto.

Nondimeno, con gradualità i rincari di energia ed alimentari si stanno diffondendo agli altri settori, in controtendenza rispetto alla stasi dell’indice generale dei prezzi da ottobre. L’inflazione di fondo, ovvero al netto di energia ed alimentari freschi, è lievitata dal secondo trimestre portandosi dall’1,9% di marzo al 5,8% di dicembre. Anche in Germania e Spagna è salita, rispettivamente al 5,1% e al 6,9. Quanto questa propagazione dei rincari possa continuare nel nuovo anno non è facile prevedere per l’Italia come per gli altri paesi dell’eurozona, non solo per la variabilità dei corsi sui mercati energetici e dei prodotti primari, ma per il potenziale inflazionistico che si è accumulato nel resto dell’economia. In Italia a dicembre l’inflazione “acquisita”, ovvero il livello di partenza per il 2023 in assenza di altri aumenti in corso di anno, ha raggiunto il 5,1%. In Germania le proiezioni sono per un incremento del 6,5% per l’intero anno.

Gli elevati ritmi d’inflazione in Europa e negli USA inquietano le banche centrali delle due aree, in quanto vanno troppo oltre i rispettivi obiettivi fissati attorno al 2% con riferimento al ciclo economico. In America i salari non hanno indugiato molto a seguire le tensioni sui prezzi al consumo, contribuendo a una loro propagazione e giustificando la determinazione della Fed a innalzare il tasso d’interesse sotto il suo controllo a oltre il 5% nell’anno corrente e a tenerlo su quel livello fin quando non ci saranno segnali chiari di un’inflazione piegata verso l’obiettivo del 2%. In Europa il divario attuale dell’inflazione dall’obiettivo è altrettanto consistente, ma non si avvertono ancora pressioni salariali d’intensità pari a quelle in America. Appare, nondimeno, inevitabile che la Bce debba stringere i freni monetari per riportare la dinamica dei prezzi verso l’obiettivo di stabilità. Parlare sulla scorta degli ultimi dati di picco d’inflazione raggiunto e quindi non necessario un deciso rialzo dei tassi guida è molto prematuro. In realtà, accettare ancora per mesi un’inflazione a ritmi più che doppi dell’obiettivo prefissato, seppure in lenta discesa, significherebbe alimentare la rincorsa salari-prezzi allontanandosi dalla missione di mantenere la stabilità monetaria.

D’altronde, un’applicazione anche approssimativa di uno dei criteri guida usati dalle banche centrali, ovvero la Taylor rule, mostrerebbe probabilmente che è consigliabile insistere nel rialzo dei tassi applicati dalla Bce. Il dilemma è piuttosto a quale ritmo farlo e a che livello fermarsi? La Bce non ha indicato a qual livello intenda portare i suoi tassi, né sarebbe saggio farlo in un panorama economico così incerto, fortemente condizionato da fattori incontrollabili ed imponderabili. Pertanto, procederà secondo le indicazioni che proverranno di mese in mese sulla dinamica dei costi e dei prezzi. Farebbe anche bene a seguire l’esempio dell’ultima riunione della Fed che ha richiamato l’attenzione a non presumere che basti qualche primo dato di discesa dell’inflazione per scontare una interruzione del suo indirizzo restrittivo.

Alcuni paesi, tra cui quelli indebitati inclusa l’Italia, vorrebbero che con la restrizione monetaria non si provocasse una stasi economica, né una recessione. Ma un rallentamento della crescita sembra inevitabile ed è già incorporato nelle proiezioni dei governi per l’anno in corso. Inevitabile, sia per raffreddare la dinamica dei prezzi e prevenire un’alta inflazione che si autoalimenta nella ricorsa prezzi-salari, sia per la necessità che i soggetti economici aggiustino i loro comportamenti di consumo, di investimento e di richieste retributive al nuovo assetto del sistema dei prezzi relativi. Coerentemente, le proiezioni del governo scontano un rallentamento della crescita allo 0,6% nel 2023 e quelle della Banca d’Italia allo 0,4%.

La prudenza con cui la Bce procede nella restrizione e le misure che le autorità dei maggiori paesi dell’eurozona hanno preso per sostenere i redditi della popolazione lasciano, tuttavia, prevedere che si eviterebbe un vera recessione ma si avrebbe solo un rallentamento della crescita. Questa conclusione vale in particolare per l’Italia dato il quadro economico che si prospetta. Da un lato, l’attuazione del Pnrr e delle opere previste tende a sostenere la domanda. Dall’altro lato, le provvidenze elargite dal governo ad ampie fasce della popolazione e i vari alleggerimenti della pressione fiscale sostengono il potere di acquisto delle famiglie e tendono a frenare i costi delle imprese. Pertanto, è poco probabile una recessione nel 2023, ma si può scontare meno crescita e meno inflazione. Ma sempre che attui un credibile programma di rientro dall’eccesso di debito pubblico.


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