David Sassoli, di fronte alla minaccia del regime russo, disse “non ci faremo intimidire”. Rappresentava bene questa idea della politica che non si astrae, che non sfugge, che non specula sulle tragedie, e che assume su di sé il peso e la fatica della storia per cambiarla in meglio. L’intervento del senatore Enrico Borghi, responsabile politiche sicurezza del Partito democratico e membro del Copasir
Che cosa c’è realmente in gioco in Ucraina, con l’aperta sfida lanciata dalla Russia allo status quo e al diritto internazionale? C’è – anzitutto – molto di più della volontà di affermazione di questa o quella forza politica italiana, e dei giochi tattici tra presunte leadership alla ricerca di una affermazione. Anzi, sarebbe utile nella circostanza ricordare che la politica estera di un Paese non è né deve diventare la palestra nella quale fare sfoggio dei propri muscoli per finalità interne.
In gioco in Ucraina ci sono i principi della nuova governance mondiale, dentro il decennio che Alec Ross ha ribattezzato come i “furiosi anni Venti” nei quali assisteremo alla ridefinizione dei rapporti di forza globali.
In Ucraina noi abbiamo assistito a un attacco a più livelli. È certamente una attacco all’indipendenza, alla sovranità e alla libertà di una Repubblica che aveva deciso di scegliere il proprio destino con libere elezioni e non con la canna del fucile dietro la schiena. Ma è anche un attacco – inutile negarlo – alla leadership culturale, economica e politica dell’Occidente fondato sul principio dello stato di diritto e delle società aperte, e al tempo stesso l’ouverture di una competizione globale tra le autocrazie e le democrazie. Tra il modello democratico (che pone l’uso della forza subordinato al primato del diritto definito da Parlamenti eletti liberamente dai cittadini) e il modello autocratico (che contempla l’uso della forza come modalità di prevaricazione del diritto interno ed internazionale).
Inaugurato dalla cesura del Covid, il “decennio furioso” è caratterizzato dalla rottura del contratto sociale interno a molti Paesi, nei quali è saltato l’equilibrio implicito tra le parti della società con la rivoluzione tecnologica che ha aumentato le disparità tra ceti e persone.
Viviamo quindi un’era di dubbi, di incertezze e di cambiamenti, nella quale è legittimo porsi l’interrogativo su dove sboccheremo.
In tempi di cambiamenti e di trasformazioni, pertanto, vanno tenuti fermi i fondamentali su cui si reggono società e ordinamenti, pena la crisi del sistema e lo sfarinamento della coesione sociale.
E tra questi fondamentali – e qui torniamo al cuore della vicenda ucraina – c’è l’esigenza di non rassegnarsi alla logica della prepotenza e del sopruso, alla logica che è la violenza e la guerra a rideterminare lo status quo come nelle pagine peggiori del Novecento.
La fermezza sulla vicenda ucraina, infatti, deciderà la nostra credibilità in futuro, oltre che la sostenibilità dei processi che conducono ad un nuovo ordine mondiale. Non vi è chi non colga un parallelismo tra quanto accade oggi in Ucraina e quanto potrebbe accadere domani a Taiwan. In quest’ottica, quindi, in Ucraina si sta testando la tenuta dei principi del diritto internazionale. Siamo d’accordo su questo? Oppure pensiamo – malati di ignavia – che se Mosca prevalesse, tutto questo non avrebbe conseguenze su di noi?
Si parla molto di pace. Ma chi fa politica non può evocare la pace solo con le parole, limitarsi alla sua evocazione o rinchiudersi nel recinto – talvolta fin troppo comodo – della testimonianza. Chi fa politica deve costruire politicamente il percorso della pace, che non si raggiunge solo perché andiamo nelle aule del Parlamento, nei talk show o nelle sfilate per le strade in favore di telecamera a evocarla. E una prospettiva politica di pace si persegue favorendo una evoluzione politica, istituzionale ed economica sul terreno tale da far comprendere a ciascuna delle due parti che l’altra parte non è più minacciosa per sé. È per questo che la fermezza sui principi del diritto internazionale è, oggi, una precondizione essenziale per il processo di pace. In assenza della quale non vi sarebbe pace, ma resa. E non si conseguirebbe giustizia, ma ingiustizia destinata inevitabilmente a sfociare in ulteriore violenza in futuro.
Noi, invece, dobbiamo impedire che la logica della guerra sia pagante. Questo è il solo, razionale modo per evitare da un lato l’allargamento del conflitto e dall’altro il suo inasprimento.
E tutto ciò, in conclusione, rimanda alla natura della Politica e al concetto che di essa abbiamo. Pensiamo, cioè, che essa debba guidare i processi storici, oppure seguirli passivamente? Viviamo il nostro agire politico con lo stato d’animo dei follower, che inseguono timorosi e talvolta cinici il flusso della Storia segnato da altri, o abbiamo l’ambizione di essere leader, e cioè coloro che si assumono le responsabilità del tempo che sono chiamati a vivere?
Quando un grande italiano, un grande europeo e una grande persona come David Sassoli, di fronte alla protervia e alla minaccia del regime russo che colpiva anche la sua persona, disse “non ci faremo intimidire”, rappresentava bene questa idea della Politica che non si astrae, che non sfugge, che non specula sulle tragedie, e che assume su di sé il peso e la fatica della Storia per cambiarla in meglio.
Molto più modestamente, ma con la fermezza e la convenzione che i principi di fondo della democrazia vanno nel caso anche difesi contro la prepotenza e la brutalità, con il nostro voto a favore dell’aiuto alla resistenza ucraina abbiamo anche noi ripetuto la frase di David, nella convinzione di servire le ragioni dei valori in cui crediamo.
(Foto: Mil.gov.ua)