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Arabian Gulf Cup. Così l’unità araba passa dal calcio

La coppa del Golfo Arabo vinta dall’Iraq racconta come la fase di distensione regionale sia tuttora in corso. Il contatto tra persone generato anche dal calcio è uno dei motori di questi cambiamenti nel sentimento politico e pubblico del Medio Oriente (e oltre)

“Siamo un faro per il mondo”, ha cantato la popstar irachena Hassan Alrassam durante la cerimonia di inaugurazione della Arabian Gulf Cup, ospitata a Bassora il 6 gennaio. L’Iraq ha vinto la coppa, battendo due giorni fa in finale l’Oman (3-2).

È la 25esima edizione, la prima ospitata in Iraq dal 1979, ed è stato un evento sportivo utile per continuare a raccontare come il mondo arabo cerchi di voltare pagina dopo decenni di violenza, instabilità, isolamento e divisioni. Aspetti che hanno pesantemente colpito l’Iraq stesso, che diventa paradigma della situazione. Dopo l’invasione del Kuwait nel 1990, all’Iraq è stato vietato di partecipare alla coppa, che ha ripreso solo nel 2004. Negli anni successivi, il Paese è stato considerato troppo pericoloso per ospitare il torneo.

“Gulf 25 è un’opportunità che può contribuire a rafforzare le relazioni tra l’Iraq e il resto dei Paesi del Golfo”, aveva dichiarato il primo ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani, che ha partecipato alla cerimonia di apertura insieme a funzionari arabi di tutta la regione e al presidente della Fifa Gianni Infantino. “Sarà un segno di ripresa dagli anni di magra e dalle turbolenze politiche”.

Dichiarazioni non banali se si pensa che Sudani è un premier la cui nomina ha fatto storcere il naso a parte dei Paesi del Golfo. Uscito dal tumultuoso processo segnato dalle proteste sadriste, è succeduto a Mustapha al Kadhimi con il dubbio che potrebbe non essere all’altezza di continuare la raffinata linea diplomatica intrapresa dal suo predecessore.

Su tutto, Kadhimi aveva avuto il ruolo di facilitatore nel colloquio avviato tra Arabia Saudita e Iran. Contatti ospitati proprio a Baghdad, che avevano fatto della capitale irachena un hub di questo genere di dialoghi (anche ospitando una conferenza regionale promossa dalla Francia). L’alchimia si è congelata perché Riad ritiene (o forse riteneva?) Sudani troppo amico dell’Iran e condizionato dall’internazionale sciita che i Pasdaran promuovono nel Paese.

“Stiamo provando a cercare un percorso di dialogo”, ha detto il ministro degli Esteri saudita parlando da Davos. “Stiamo” presuppone che ancora, adesso, qualcosa è in corso, e possibile che l’Iraq abbia dato rassicurazioni sul proprio ruolo da piattaforma per gli incontri. D’altronde Sudani ha da poco fornito rassicurazioni anche agli alti funzionari statunitensi Brett McGurk e Amos Hochstein, arrivati a Baghdad nei giorni in cui l’Arabian Gulf Cup era nel vivo per parlare con il nuovo premier — negli stessi giorni, il generale delle Quds Force dei Pasdaran Ismail Qaani era anche lui in città per uno scambio di vedute con i leader delle milizie amiche (che sostengono Sudani).

Il mondo dello sport, del calcio, è parte coinvolta e influenzata da certi contesti e processi. Il torneo arabo, che si svolge ogni due anni, ha visto la partecipazione di Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Bahrein e Oman), oltre a Yemen e Iraq. Realtà molto sensibili di una regione centrale per il mondo.

L’Iran ha a lungo contestato l’uso del termine “Golfo Arabico” per descrivere la coppa, sostenendo che dovrebbe essere chiamata “Golfo Persico”. La settimana scorsa, Teheran ha convocato l’ambasciatore iracheno per presentare una protesta ufficiale. Sudani ha minimizzato il disaccordo in un’intervista a Deutsche Welle, affermando: “Rispettiamo tutti i punti di vista, e oggi siamo parte del sistema arabo, e siamo intenzionati a perpetuare le nostre relazioni con gli Stati del Golfo arabo”. Gli iracheni sono stati meno misurati sui social media, inondando Twitter con l’hashtag “Arabian Gulf”. Per decenni l’Iran ha cercato di eliminare l’identità araba dall’Iraq in generale e dalla società tribale dell’Iraq meridionale in particolare: un processo di influenza ideologica e culturale che ha portato il Paese sotto l’ala della Repubblica islamica. Tuttavia anche in questo qualcosa sta cambiando, e la coppa vinta dall’Iraq è parte di questo cambiamento. Gli iracheni si sentono vicini al mondo arabo del Golfo (forse più che a Teheran, soprattutto adesso che le proteste infiammano l’Iran e il regime reprime il dissenso senza freni inibitori).

Così come la recente Coppa del Mondo di Doha, in Qatar, è servita a far conoscere la cultura del Golfo Persico al mondo esterno, il torneo di Bassora ha dato a molti cittadini del Golfo la prima occasione di conoscere l’Iraq. Forme di contatto people-to-people che poi influenzano inevitabilmente anche l’andamento delle scelte dei decisori politici. Per gli abitanti locali è stata una rara opportunità di assistere a partite di calcio internazionali nel proprio giardino domestico e, cosa altrettanto importante, di esprimere l’orgoglio nazionale e la solidarietà regionale.

La competizione tra i Paesi del Golfo non c’è solo per la vittoria della coppa. Tuttavia, anche se circostanze politiche e interessi marcano parziali distanze — come quelle emerse anni fa con l’isolamento totale con cui il Qatar era stato marginalizzato — attualmente la regione sta vivendo una stagione di distensione. Equilibri tattici, necessari a cavalcare i cambiamenti, normalizzazioni e riconciliazioni i cui effetti si sentono in tutto il Mediterraneo allargato.

La pandemia con le sue conseguenze; l’arrivo alla Casa Bianca di un presidente come Joe Biden che spinge per il dialogo interno (interesse americano per rendere la regione più ordinata e procedere al disingaggio); gli effetti della guerra in Ucraina; il processo di transizione energetica globale (che per quei Paesi significa transizione esistenziale) rallentato dalle nuove evoluzioni del mercato che hanno portato nuove entrate; una volontà delle collettività di superare le varie stagioni di conflitto per aumentare prosperità e sviluppo. Sono queste le ragioni che muovono la regione, pur con turbolenze interne delicatissime.

Più di 50.000 visitatori da ogni parte del Golfo si sono riversati in Iraq nelle ultime due settimane, quando il Paese ha allentato le restrizioni alle frontiere e concesso visti gratuiti. Si sono diretti verso il porto meridionale di Bassora, la seconda città dell’Iraq — ricca di petrolio per miliardi di dollari, con una popolazione che non ha mai condiviso la prosperità, quasi la metà dei residenti della città vive al di sotto della soglia di povertà, un quarto dei giovani disoccupato. I turisti del calcio sono stati accolti con striscioni e bandiere.

“Siamo molto felici della presenza dei nostri fratelli”, dice un trentenne iracheno che qualche anno fa partecipava alle manifestazioni anti-governative (e anti-sistema) nel Paese e che invece adesso percepisce il valore di questa nuova fase in esperienze di vita come la Coppa: “Speriamo che non finisca mai”. Dimostrazioni di apertura che si sono viste già (in ottica globale) con i Mondiali qatarini. Speranze.

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