Non si tratta soltanto di avere soldi disponibili per costruire nuovi nidi. L’efficacia del piano dipenderà soprattutto dalla capacità dei territori di sviluppare altre offerte, in grado di creare le famose “sinergie”. I dati (utili) della ricerca indonesiana letti da Stefano Monti, partner di Monti&Taft
Parte dei fondi straordinari messi a disposizione dal Pnrr sono stati e saranno dedicati a rinnovare e, ove necessario, a costruire, una nuova offerta in termini di asili nido pubblici.
Come indicato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, infatti, “il Piano asili nido della Missione 4 mira ad innalzare il tasso di presa in carico dei servizi di educazione e cura per la prima infanzia prevedendo 4,6 miliardi di euro per gli asili nido e le scuole dell’infanzia. Il rapporto tra posti disponibili negli asili nido e numero di bambini di età compresa tra 0 e 2 anni oggi si colloca nel nostro Paese – con forti divari territoriali – in media al 25,5%, ovvero 7,5 punti percentuali al di sotto dell’obiettivo europeo del 33% e 9,6 punti percentuali al di sotto della media europea.”
Pur rimarcando la forte necessità di un tale piano, è altresì opportuno sottolineare che l’efficacia di tale Piano non dipenderà soltanto dalle numerose variabili interne, come la capacità di realizzare gli investimenti nei tempi dovuti, la fondatezza degli investimenti, la qualità delle dotazioni immobiliari realmente erogate e la qualità dell’organizzazione, ma anche e soprattutto dalla capacità dei territori di sviluppare altre offerte, in grado di creare le famose “sinergie” con altre azioni, come ad esempio la costruzione di una rete di posti di lavoro, affinché i genitori possano sviluppare reddito durante le ore in cui gli asili nido prendono in carico i propri figli.
A determinare questo tipo di riflessione non è solo il “buon senso”, ma anche una recente ricerca, pubblicata dalla rivista accademica Economic Development and Cultural Change, che analizza, in termini di evidenze, il rapporto tra la disponibilità di istituzioni pre-scolari e l’andamento occupazionale femminile nel contesto indonesiano.
Dai risultati di tale ricerca derivano alcune “istruzioni” che potrebbero essere ben utili al nostro sistema Paese, e per le quali potrebbe essere saggio prevedere, sin da ora, potenziali soluzioni, al fine di evitare che un così ampio investimento pubblico si limiti semplicemente a costruire nuovi immobili.
Può essere dunque utile approfondire tali risultati che, in primo luogo, confermano la relazione positiva tra aumento dell’offerta disponibile e ingresso (o rientro) nel mondo del lavoro. Nel dettaglio, infatti, le analisi hanno mostrato come un incremento di soluzioni prescolari pubbliche per 1000 bambini sia associato ad un aumento occupazionale delle madri di bambini in età prescolare di 4.8 punti percentuali.
Dato significativo, che conferma la già esistente letteratura e che, al di là degli aspetti più prettamente accademici, si inscrive all’’interno della nostra esperienza quotidiana.
Proprio a fronte di questa importante relazione, però, acquisisce ancora maggior rilevanza l’altra evidenza emersa dai dati: a fronte di un’offerta pubblica limitata, in termini orari, raramente tale maggiore disponibilità si è associata all’ottenimento di un “miglior lavoro”.
Come sostengono gli autori, circa il 75% delle madri di figli in età prescolare che grazie alla maggiore dotazione sono entrate o rientrate nel mondo del lavoro, sono state coinvolte in lavoro familiare non pagato, condizione che con ogni probabilità ha determinato anche un altro risultato della ricerca, l’assenza di incrementi in termini di reddito orario.
Ad essere rilevante, tuttavia, non è il dato in se, ma quanto da queste informazioni è possibile applicare anche al nostro contesto nazionale.
Per essere più chiari, è necessario approfondire maggiormente un dettaglio che sinora, è stato dato per scontato. In altri termini, ciò che dovrebbe far riflettere non è tanto che l’apertura limitata di nidi potrebbe generare soltanto un ingresso lavorativo temporaneo, quanto piuttosto che l’offerta di nidi porterà uno o entrambi i genitori (il nostro contesto culturale è in ogni caso differente da quello indonesiano), ad avere una maggiore disponibilità, in termini di monte-ore, da poter investire.
Perché la risorsa che viene restituita ai genitori, quindi, non è il “lavoro”, quanto piuttosto il “tempo utile”.
Per quanto possa apparire una riflessione fine a sé stessa o più banalmente una precisazione “scolastica”, in realtà questa constatazione dirige la riflessione al di là delle relazioni causali, e la introduce all’interno di quello che sinora, nel nostro dibattito pubblico, è stato considerato come un fattore neutrale, e che invece rappresenta un elemento tutt’altro che irrilevante: l’ambiente.
Affermare che i genitori avranno maggior tempo a disposizione significa che tali genitori avranno un monte ore che potranno investire per migliorare la propria condizione. Tale obiettivo, con molta probabilità, sarà spesso associato alla ricerca di un lavoro.
Tale lavoro, tale nuova occupazione, dovrà essere coerente con la disponibilità di monte-ore (le ore di apertura del nido), e con la disponibilità “territoriale”: l’apertura di un nido a Catanzaro sicuramente non abiliterà i genitori a poter trovare un lavoro a Modena.
E qui che il contesto territoriale entra in gioco in modo prioritario: perché nel nostro Paese continuano a resistere sacche di lavoro grigio, fenomeni di economia sommersa, e, soprattutto, nel nostro Paese, si registra un significativo tasso di disoccupazione.
Cosa significa tutto ciò?
Così come le madri indonesiane hanno trovato lavoro non pagato in contesti familiari, perché quello è il tessuto occupazionale loro più prossimo, così sarà possibile che i genitori che beneficeranno del nido potranno essere coinvolti in fenomeni di lavoro grigio, o andare a potenziare le schiere di disoccupati che in alcune are del nostro territorio sono già molto corpose.
Non tutte le madri potranno accedere ai benefici volti a potenziare l’autoimprenditorialità femminile. Non tutti i padri avranno idee e competenze per poter aprire start-up.
Può darsi che la maggiore disponibilità di tempo libero possa invogliare queste persone a creare percorsi professionalizzanti. Ma non è detto che ciò accada.
Fin qui il ragionamento si limita ad identificare, nel modo più neutrale possibile, il potenziale problema. Le soluzioni e le proposte, invece, non sono mai tecniche, ma sempre il riflesso di una visione “politica”.
Un liberale potrà affermare che starà a quelle persone la responsabilità di migliorare la propria condizione. Una persona che crede in un ruolo paternalista dello Stato potrà affermare che bisognerà fornire a queste persone dei servizi che le aiutino ad entrare nel mondo del lavoro. Uno statalista penserà che sarà necessario erogare contributi per favorire l’apertura di fabbriche in quelle aree.
Nessuna di queste azioni è giusta o sbagliata. Ognuna di esse riflette una visione del mondo del tutto legittima e tantissime altre azioni possono essere ipotizzate e realizzate.
Il punto però è che pochi si sono posti il problema fondamentale: cosa faranno i genitori durante il loro maggior tempo a disposizione? Esistono delle specializzazioni che potrebbe essere utile favorire per incrementare il livello di occupabilità di certe persone? Esistono dei corsi che possano essere resi obbligatori, come ad esempio i corsi in lingua inglese, così da poter accedere al vasto mondo delle offerte di lavoro online? O corsi di informatica avanzata? O offerte occupazionali più concrete come la possibilità di lavorare in fabbrica e/o in cooperative di servizi?
Se non ci sono posti di lavoro disponili, aumentare le persone che offrono il proprio-tempo non ridurrà di certo il livello generale di disoccupazione.
L’opportunità di avere tempo, e tempo-lavoro, è importante. Ma è solo una parte di quello che è necessario fare.
Sarebbe il caso si iniziasse a ragionare anche a questo. E non solo al fatto che c’erano dei soldi disponibili e che adesso si potranno costruire nuovi nidi.