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Batterie, le lezioni del fallimento di Britishvolt

Il collasso del progetto britannico suona come un campanello d’allarme per l’industria europea e un esempio da non replicare per l’impianto di Scarmagno, in Piemonte. Senza il giusto management e un ecosistema pubblico-privato sano, le gigafactory rischiano di diventare cattedrali nel deserto?

Quando nel 2014 Elon Musk coniò il termine gigafactory con l’inaugurazione del primo impianto in Nevada, in pochi ancora avrebbero scommesso che si sarebbe trattato di un megatrend secolare. La necessità di stoccare energia, per l’integrazione delle fonti rinnovabili nella rete e il passaggio mobilità elettrico, rendono le batterie un asset certamente strategico per il futuro. Climatico e geopolitico.

Per capire la portata della rivoluzione in corso, basta fare due rapidi calcoli. Nel 2014, l’anno dell’esordio di Tesla con Gigafactory 1, venivano prodotti circa 35GW/h di batterie in 20-30 linee di produzione in tutto il globo. Oggi, le proiezioni solo al 2025 vedono capacità industriali da quasi 3.000 gigawatt all’ora, praticamente 100 volte tanto nel giro di un solo decennio. Le gigafactory, dunque, sono al centro della transizione energetica che è, a dirla tutta, una vera e propria trasformazione industriale come ha di recente rimarcato l’International Energy Agency nel suo rapporto sulle tecnologie green.

Un’economia che si baserà sulla capacità di sfruttare (R&D) le proprietà di alcuni elementi della tavola periodica, come il silicio o il gallio per i semiconduttori, le terre rare per i motori elettrici e appunto il litio (e altre materie prime come grafite, cobalto, nickel e manganese) per produrre le batterie. Ma soprattutto che potrà davvero generare benefici, nel caso delle batterie al litio, quando l’economia di scala consentirà di abbattere ulteriormente i costi di produzione.

Le difficoltà in questa direzione sono enormi. Dall’accesso alle materie prime, le cui forniture sono diventate una questione di sicurezza per nazioni e imprese, alle celle, una delle quattro componenti fondamentali della batteria, che sono una parte sostanziale del costo finale di un veicolo elettrico (EV): per rimanere competitivi sul mercato, è fondamentale costruirle in scala il prima possibile, riducendo le spese in conto di capitale. Poi c’è la tecnologia delle batterie, che evolve continuamente per incontrare le aspettative del mercato (gli OEMs, ovvero l’automotive) e dei consumatori (la sostenibilità), riducendo costi e rischi. Infine, un modello di business che deve integrare saperi e competenze necessariamente trasversali, oltre a gestire i costi in capitale (ovvero i costi d’investimento per GW/h di produzione) che variano a seconda della posizione geografica, partnership e modello di produzione.

Questo complesso di variabili nel caso di Britishvolt – start up avviata dagli imprenditori svedesi Lars Carlstrom e Orral Nadjari nel 2019, un maxi-progetto da quasi 4 miliardi di sterline che ambiva a diventare il più grande centro di produzione di batterie in Europa – non solo non è stato mai perfezionato, ma non è proprio decollato. L’azienda britannica aveva programmato lo sviluppo di una gigafactory vicino al porto di Blyth, nel Northumberland, con una capacità annuale di 38 GWh entro il 2024. Dal suo esordio, Britishvolt aveva raccolto quasi 2,5 miliardi di dollari di finanziamenti, tra cui 100 milioni di sterline dal governo britannico tramite l’Automotive Transformation Fund (ATF), un programma di finanziamenti creato per supportare l’industrializzazione su larga scala, con 1 miliardo di fondi previsti per l’elettrificazione della supply chain automotive britannica. Un meccanismo importante per raggiungere gli (ambiziosi) 10 punti per la rivoluzione green-tech varata dal governo nel suo Transport Decarbonisation Plan. Altre realtà industriali interessate avevano investito, tra cui Glencore, multinazionale mineraria, con 5 milioni di sterline alle fine dell’anno.

Britishvolt aveva iniziato a stringere importanti accordi di collaborazione, tra cui Aston Martin e Lotus per le forniture di batterie elettriche sviluppate con celle cilindriche 21700, un prodotto già esistente sul mercato e protetto da numerose licenze, ma con migliori performance e velocità di ricarica. Inoltre, come racconta il Financial Times, non era ancora riuscita a piazzare ordini sul mercato, con i principali automakers sull’isola (tra cui Nissan, Toyota e Stellantis) già orientati al mercato asiatico, pronto e solido per soddisfare i piani di conversione all’elettrico. Un vicolo cieco: senza una tecnologia proprietaria, in un mercato già iper-competitivo, e in assenza di ordini, a dimostrazione della fattibilità commerciale del suo business, l’azienda non aveva solide basi per convincere nuovamente gli investitori per il finanziamento del sito produttivo.

Ad aggravare la situazione, una pessima gestione del capitale raccolto. Una crisi di liquidità che ha iniziato a manifestarsi nel corso del 2022, quando sono emerse alcune voci di spesa alquanto insolite, tra dipendenti e dirigenza per una start-up che vuole farsi strada in un mercato così complesso, come riporta Wired. Una gestione poco apprezzata anche dal governo britannico, che aveva respinto una ulteriore richiesta avanzata da Britishvolt di 30 milioni di sterline per risolvere i problemi finanziari della società.  Probabilmente il destino dell’azienda era già stato segnato fin dal principio, considerando che i due fondatori non avevano alcuna esperienza nel settore delle batterie elettriche: nell’agosto del 2022, coinvolti in uno scandalo per frode, Carlstrom e Najdari hanno comunicato le loro dimissioni, sostituiti dall’ex dirigente di Ford, Graham Hoare.

Con il collasso finanziario di Britishvolt, a soli nove mesi dall’inizio della costruzione della gigafactory, ora i sogni di autonomia industriale della Gren Bretagna rimangono appesi ad Envision, società cinese che insieme a Nissan ha in progetto la costruzione di un sito produttivo da 35 GWh nel Sunderland. Una prospettiva politicamente inappropriata rispetto alle ambizioni del governo britannico, considerando anche la crescente consapevolezza delle sfide strategiche del settore, a partire dalle forniture dei materiali critici. La House of Commons ha annunciato l’apertura di un’inchiesta per stabilire la viabilità di una supply chain delle batterie in Gran Bretagna.

Il futuro dell’azienda, ora in amministrazione controllata sotto l’egida della società di consulenza EY-Parthenon, sarà necessariamente legato alla vendita per poter garantire i creditori. Sono 300 i posti di lavoro sfumati, senza tenere conto dei potenziali 5000 che si sarebbero creati con l’indotto economico del sito. Un durissimo colpo per le ambizioni britanniche, anche se la sopravvivenza di Britishvolt non avrebbe certamente realizzato la piena autonomia: secondo le stime di Benchmark Minerals Intelligence, in UK si sarebbero concentrate solo lo 0,6% delle capacità di produzione di batterie al litio entro il 2031. Senza la start-up, ora si parla di un misero 0,2%.

La parabola di Britishvolt rammenta le difficoltà di un settore complesso, un’impresa che diventa impossibile senza un management in grado di gestire e comprendere il funzionamento della tecnologia e della supply chain. “Costruire batterie al litio non è facile, specialmente in scala” ha commentato Simon Moores, CEO di Benchmark. “E’ una lezione che serve investire soldi nel costruire un prodotto, una filiera e un consumatore finale per prima cosa”.

Ecco perché l’impiego di soldi pubblici – come emerge dalla spirale protezionistica innescata dall’Inflation Reduction Act a cui seguirà un omologo europeo – deve essere estremamente oculato: perché il marketing e la narrazione non bastano per stabilire storie di successo nel segmento delle batterie. I flussi d’investimento privati e pubblici che stanno confluendo raccontano solo una parte degli sforzi necessari: servono competenze, comprensione dei processi (industriali e tecnologici), partnership strategiche lungo la filiera, come racconta l’esperienza di Northvolt. E nulla di questo si crea a livello legislativo o nei round d’investimento.

E considerando l’importanza di quest’industria, niente deve essere lasciato al caso. Secondo alcuni osservatori, la responsabilità sarebbe anche del governo britannico che non avrebbe stilato una strategia industriale in grado di inserire Britishvolt in un contesto più solido e fertile per nuovi investimenti privati. Al contempo, l’appetibilità agli occhi degli investitori era, per il Premier britannico Rishi Sunak, condizionalità essenziale per poter elargire nuovi prestiti. Un circolo vizioso che è tuttavia diventato fatale.

Ora tutti gli occhi sono puntati sui progetti di Scarmagno, in Piemonte. Qui, Carlstrom ha in mano la gestione di Italvolt per la realizzazione di una gigafactory da 45 GWh, dal costo iniziale di 3.5 miliardi di euro, nell’ex area Olivetti, la cui costruzione dovrebbe essere avviata quest’anno. Alla firma del protocollo d’intesa hanno partecipato la Regione Piemonte, la città metropolitana di Torino e i comuni eporediesi ospitanti. Di recente l’azienda ha annunciato l’avvio di una partnership con l’israeliana StoreDot per la realizzazione di batterie al litio a ricarica ultrarapida, con la concessione della sua licenza tecnologica, oltre ad una con il Politecnico di Milano per la mappatura circolare della produzione. Anche qui, la promessa politica ed economica è importante: 4000 posti di lavoro diretti, la rivitalizzazione di un’area industriale storica, un nuovo investimento dell’Italia – è in discussione un finanziamento da parte del governo (tramite l’ex MISE) – in un segmento industriale strategico.

“Sono un grande fan dell’industrializzazione e della creazione di posti di lavoro”, ha affermato Carlstrom in un’intervista lo scorso 21 novembre 2022. Nella sua visione, la nascente industria delle batterie europea è una questione nuova, aperta alle possibilità. “Si tratta di un’industria giovane, dove nessuno davvero conosce come fare le cose nel modo giusto […] neppure gli OEMs. Quando si tratta di batterie, nessuno sa. Dunque, la mia scommessa è buona come le vostre”. Quella di Britishvolt non è stata sicuramente vincente, sperando che il fragoroso fallimento possa diventare una lezione.


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