Tra il collasso del mattone e la pandemia, oggi secondo Standard&Poor’s gli istituti del Dragone scontano un deficit di capitale di oltre 550 miliardi di dollari. E ora per sopravvivere lo Stato non basta, serve il mercato
Qualcosa sta franando nel sistema bancario del Dragone, da anni ormai sotto una pressa che ne ha schiacciato ricavi e margini, facendone esplodere il debito. Prima la crisi del mattone, tradottasi in una catena di insolvenze costata a Pechino un colpo di spugna sui parametri di finanza del settore (le famose tre linee rosse). Poi la pandemia, con la paralisi generalizzata di un’intera economia. Ora un’inflazione decisamente vischiosa e un abbandono della zero covid policy forse troppo repentino.
Tutto questo ha portato gli istituti di credito del Dragone, il grosso dei quali controllati o partecipati dal governo stesso, a enormi perdite di capitale, inevitabilmente intaccato per sostenere le banche nel momento di massimo sforzo. Ma ora il conto dell’oste è arrivato, come evidenzia un report di Standard&Poor’s. Il punto di partenza è che alle banche cinesi mancano oltre 550 miliardi di dollari di patrimonio. Un buco che va necessariamente colmato, pena l’insolvenza degli istituti. Prospettiva che la Repubblica popolare non può certo permettersi.
Come salvare le banche cinesi too big to fail, si chiede l’agenzia di rating in apertura di documento. Servono soldi freschi e subito. “Gli istituti venderanno probabilmente obbligazioni senior non-preferred (obbligazioni che prevedono condizioni di rimborso prioritarie rispetto a quelle normali, ndr) nel corso del prossimo anno per colmare un deficit di capitale stimato di 550 miliardi di dollari”. E nel calderone del debito ci sono anche le banche considerate sistemiche per l’economia del Dragone. “Industrial and Commercial Bank of China, China Construction Bank, Agricultural Bank of China e Bank of China hanno ridotto il loro capitale totale di assorbimento delle perdite a 3,7 trilioni di yuan da una stima di 6 trilioni di yuan nel 2020”.
E che l’operazione sia di quelle pesanti, lo dimostra un altro passaggio del report. “I bond di prossima emissione potrebbero comprendere fino al 40% del Tlac (il nuovo standard internazionale fissato al fine di garantire che le banche abbiano sufficiente capacità di assorbimento delle perdite e di ricapitalizzazione, di modo che le autorità di risoluzione, nel caso di insolvenza, possano utilizzare gli strumenti di risoluzione delle crisi bancarie, minimizzando i rischi per la stabilità finanziaria, ndr) totale”.
Come ricorda Standard&Poor’s, “le attività del sistema bancario cinese ammontavano a 344 mila miliardi di yuan, ovvero circa tre volte il Pil annuale del Paese, alla fine del 2021. Ma mentre il governo cinese continua a sostenere fortemente le banche nazionali, ciò non significa che l’intero sistema verrebbe salvato in caso di crisi”. Per questo gli istituti devono salvarsi da soli, chiedendo una mano al mercato.